martedì 7 aprile 2009

la siciliana ribelle...RITA ATRIA


                                                                          
                                                                      TEMA
La morte del giudice Falcone ripropone in termini drammatici il problema della mafia. Il candidato esprima le sue idee sul fenomeno e sui possibili rimedi per eliminare tale piaga.


SVOLGIMENTO
La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte del giudice Falcone.

Per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire.

Con lui è morta l'immagine dell'uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare.

Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.

Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un'immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perché tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai.

Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi.

Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c'e chi ha paura come Contorno, che accusa la giustizia di dargli poca protezione.

Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per rassicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un'altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.

L'unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti.

L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.

Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.



Rita Atria
Erice, 5 giugno 1992




"Rita, non t'immischiare, non fare fesserie" le aveva detto ripetutamente la madre, ma, Rita aveva incontrato Paolo Borsellino, un uomo buono che le sorride dolcemente, e lei parla, parla…racconta fatti. Fa nomi. Indica persone, compreso l'ex sindaco democristiano Culicchia, che ha gestito e governato il dopo terremoto.

"Fimmina lingua longa e amica degli sbirri" disse qualcuno intenzionalmente, e così al suo funerale, di tutto il paese, non andò nessuno.


Non andò neppure sua madre, che, disamorata, fredda e distaccata, l'
aveva ripudiata e minacciata di morte perché quella figlia così poco allineata, per niente assoggettata, le procurava stizza e preoccupazione.


Si recherà al cimitero parecchi mesi più tardi, e con un martello, dopo aver spaccato il marmo tombale, rompe pure la fotografia della figlia, una foto di Rita appena adolescente.





Ha preferito morire per vivere.









Il 26 luglio 1992, Rita si toglie la vita lanciandosi dal settimo piano di via Amelia.
Una settimana esatta dalla morte dello "zio" Paolo, nella stessa ora.
Piera Aiello, cognata e amica


Il giudice Borsellino













PARTANNA



LA STORIA DI RITA

Figlia di un piccolo boss di quartiere facente capo agli Accardo, Rita Atria è nata e cresciuta a Partanna, piccolo comune del Belice, una vasta zona divenuta famosa perché distrutta dal terremoto. Un territorio in cui, in quel periodo, si dice circolasse denaro proveniente dal narcotraffico, e di cui Rita non sopporta le brutture, le vigliaccherie, la tristezza. L'ignavia delle donne.

"Una donna sa sempre cosa sta combinando suo marito o suo figlio" ha spiegato Piera Aiello moglie di Nicola Atria, fratello di Rita, e lei condivide con convinzione. Sensibile all'inverosimile, eppur ostinata, caparbia, fin dall'adolescenza dimostra di essere molto dura ed autonoma. A casa sua, faide, ragionamenti, strategie, vecchi rancori, interessi di ogni tipo, erano all'ordine del giorno, perché, suo padre, don Vito Atria, ufficialmente pastore di mestiere, era un uomo di rispetto che si occupava di qualsiasi problema; per tutti trovava soluzioni; fra tutti, metteva pace, "…per questioni di principio e di prestigio…- sosteneva Rita - senza ricavarne particolari vantaggi economici…" tranne quello di rubare bestiame tranquillamente ed avere buoni rapporti con tutti quelli che contavano.


Cionostante, il 18 novembre dell'85, don Vito Atria, non avendo capito che il tempo è cambiato, e che la droga impone un cambio generazionale, è stato ucciso. Rita innanzi a quel cadavere crivellato di colpi, fra gli urli e gli impegni di rappresaglia dei famigliari, anche se appena dodicenne, dentro di sé, comincia ad rimestare vendetta. Ma la morte del padre le lascia un vuoto. Rita, allora, riversa tutto il suo affetto e la sua devozione sul fratello Nicola. Ma Nicola era un "pesce piccolo" che col giro della droga, aveva fatto i soldi e conquistato potere. Girava sempre armato e con una grossa moto.

Quello con il fratello diventa un rapporto molto intenso, fatto di tenerezza, amicizia, complicità, confidenze. E' Nicola, infatti, che le dice delle persone coinvolte nell'omicidio del padre, del movente; chi comanda in paese, le gerarchie, cosa si muove, chi tira le fila… trasformando così una ragazzina di diciassette anni, in custode di segreti più grandi di lei.


Tutto ciò non le impedisce di innamorarsi e fidanzarsi con Calogero, un giovane del suo paese. Fino al 24 giugno del 91, il giorno in cui anche suo fratello Nicola viene ucciso e sua cognata Piera Aiello che da sempre aveva contestato a quel marito le frequentazioni e i suoi affari, collabora con la giustizia e fa arrestare un sacco di persone. Calogero interrompe il fidanzamento con Rita perché cognata di una pentita e sua madre Giovanna va in escandescenze.


Dopo il trasferimento in località segreta di Piera e dei suoi figli, Rita a Partanna è veramente sola: rinnegata dal fidanzato e dalla mamma, non sa con chi parlare, con chi scambiare due parole. Sottomettersi come sua madre o ribellarsi?

All'inizio di novembre, ad appena diciassette anni, decide di denunciare il sistema mafioso del suo paese e vendicare così l'assassinio del padre e del fratello.

Incontra il giudice Paolo Borsellino, un uomo buono che per lei sarà come un padre, la proteggerà e la sosterrà nella ricerca di giustizia; tenterà qualche approccio per farla riappacificare con la madre.

La ragazzina inizia così una vita clandestina a Roma. Sotto falso nome, per mesi e mesi non vedrà nessuno, e soprattutto non vedrà mai più sua madre. L'unico conforto è il giudice.

Ma arriva l'estate del '92 e ammazzano Borsellino, Rita non ce la fa ad andare avanti. Una settimana dopo si uccide
.

Graziella Proto




SPETTACOLI & CULTURA
www.repubblica.it

Arriva nelle sale il film di Marco Amenta, ispirato alla vera, tragica storia della Atria
Figlia di criminali, collaboratrice di Borsellino, si suicidò 7 giorni dopo la sua morte

Storia di Rita, "La siciliana ribelle"
che a 17 anni osò sfidare la mafia

Parla il regista:

"Mostro gli uomini d'onore così come sono, senza romanticismo"


Storia di Rita, "La siciliana ribelle" che a 17 anni osò sfidare la mafia
Veronica D'Agostino nel film

il suo desiderio non è più la vendetta, ma la giustizia.


ROMA - Nell'infinita mattanza di mafia, nel mare di dolore che Cosa Nostra ha provocato in Sicilia, la storia di Rita Atria resta una delle più tristi, più commoventi, più tenere. Quella di una ragazzina che ad appena 17 anni decide di denunciare gli assassini di padre e fratello, entrambi uomini d'onore. E che instaura un rapporto forte col giudice Paolo Borsellino. L'epilogo, però, è tragico: lei riesce a far condannare molti degli uomini del clan, ma si suicida sette giorni dopo la strage di via d'Amelio. Visto che, morto il magistrato, le resta solo l'odio dei suoi compaesani e perfino di sua madre. Così furiosa con la figlia da arrivare a profanare la sua tomba a martellate.

E adesso questa vicenda di coraggio e di lotta, di giovinezza tradita e di sangue, approda sul grande schermo.
Con un film che alla vera figura di Rita Atria è solo liberamente ispirato. Si chiama La Siciliana ribelle, è già passato con successo all'ultimo Festival di Roma, ed è diretto da un autore emergente dalla forte personalità: il palermitano Marco Amenta, che si era fatto notare per la sua bella docufiction su Bernardo Provenzano, Il fantasma di Corleone. E che alla Atria aveva già dedicato un documentario, dal titolo simile - Diario di una siciliana ribelle.

La pellicola di finzione che sta per uscire nelle nostre sale, distribuita dall'Istituto Luce, è ambientata in un paese siciliano immaginario, dove vive una bambina, Rita Mancuso (Miriana Fajia), adorata dal papà, mafioso locale (Marcello Mazzarella). L'uomo però viene ucciso sotto gli occhi della figlia; e alcuni anni dopo - nel 1991, quando Rita (Veronica D'Agostino) ha ormai 17 anni - viene ammazzato anche suo fratello Carmelo (Carmelo Galati).

Assetata di vendetta, decisa a farla pagare al mandante dei due omicidi (il boss Salvo Rimi, interpretato da Mario Pupella), decide di andare a parlare con un magistrato palermitano (l'attore francese Gerard Jugnot). A lui, e solo a lui, la ragazza consegna i suoi diari, in cui ha annotato tutte le attività criminali che si svolgono nel suo paese.
Comincia così la sua collaborazione con la giustizia:
si trasferisce a Roma sotto falso nome, inizia una storia d'amore con un ragazzo "normale" (Primo Reggiani).

All'inizio, Rita è mossa solo da una furia cieca verso chi ha massacrato i suoi familiari, ma non mette affatto in discussione la mafia: per lei, il papà e il fratello sono degli eroi. Poi però, anche grazie al suo rapporto con giudice, la sua ottica cambia:

come dirà in aula, al processo che vede alla sbarra tutti i criminali del suo Paese, il suo desiderio non è più la vendetta, ma la giustizia. Ma poi il giudice suo amico viene fatto saltare in aria col tritolo: e a lei non resta che un gesto estremo di sfida, di lotta...

Il tutto in un film solido, con una bella interpretazione della protagonista Veronica D'Agostino. Attrice già vista in Respiro di Emanuele Crialese, e che - per una di quelle strane coincidenze della vita - ha interpretato la figlia di Borsellino, nella fiction televisiva sul magistrato. Meno felice, invece, la scelta di affidare un personaggio carismatico come il magistrato a Gerard Jugnot; ma il film è una coproduzione italo-francese, e dunque la presenza di un attore d'oltralpe tra gli interpreti principali era d'obbligo.

Altra caratteristica: la sua rappresentazione molto cruda e realistica di Cosa Nostra. Che Amenta oggi, in conferenza stampa, rivendica:
"Sono palermitano, ho lavorato sia come fotoreporter che come regista di documentari, ho fotografato morti ammazzati, ho incontrato i figli di Riina, ho conosciuto magistrati e poliziotti. Perciò qui non mi sono rifatto all'iconografia classica del cinema mafiologico, ma alla realtà concreta. Mostrando, come ha già fatto Gomorra, come nella criminalità organizzata non ci sia nessun romanticismo alla Padrino".

Ma Amenta sembra avercela soprattutto con alcune fiction italiane. "Fenomeni come gli amici del boss Matteo Messina Denaro o Riina su Facebook - attacca - mostrano come la rappresentazione della mafia, ad esempio in tv, può essere dannosa. Anche solo per il fatto di far essere i mafiosi protagonisti: il pubblico tende a identificarsi col personaggio che sullo schermo compare più tempo. Nel caso di personaggi inventati va pure bene, ma se sono reali, con nome e cognome, la cosa è deleteria".

Ultima annotazione: il film è stato visto ed è piaciuto alla moglie di Borsellino, mentre i parenti rimasti vivi della Atria - la cognata e la nipote, anche loro collaboratrici di giustizia - hanno fatto sapere di non apprezzare l'idea di trasformare la storia in un film. "Le invito a confrontarci pubblicamente - conclude Amenta - ho cambiato nomi e situazioni proprio per tutelare la loro privacy".

(25 febbraio 2009)


un commento
Sicuramente bel film. Però secondo me un siciliano potrebbe sentirsi un po’offeso da certi adattamenti del film e luoghi comuni. Anche se la trama è forte di significati serve rispetto per chi ha fatto si che la sua morte abbia dato inizio a uno scontro tra mafia e giustizia ad armi pari. Perchè senza dubbi prima di ciò la parità non c'era...

cgp risponde
Un siciliano che conosce i problemi della mafia in Sicilia perchè dovrebbe sentirsi offeso? Nascondere la verità ed i problemi del proprio paese per apparire migliori di quello che si è mi sembra un atteggiamento molto sbagliato e molto vicino alla mentalità basata sull'omertà. Inoltre è un modo per fingere di non vedere e quindi non impegnarsi nella lotta per un mondo migliore