martedì 14 aprile 2009

CONCORSO ALLE INDUSTRIALI SULLA DISABILITA'

Gli studenti del Tecnico Industriale G. M. Angioy possono partecipare ad un concorso con un elaborato sui seguenti temi:

"Ho avuto un'idea per migliorare la vita ad un disabile"

" Io e i disabili"

"Nessuno è uguale nessuno è diverso"


LA PREMIAZIONE E' PREVISTA PER LA META' DI MAGGIO 2009

LA COMMISSIONE COMPOSTA DALLA DIRIGENTE E DA TRE DOCENTI ESTERNI ASSEGNERA' TRE PREMI DA DUECENTO EURO CIASCUNO

lunedì 13 aprile 2009

DISABILITA' E DIVERSITA'







“La barriera non è la disabilità stessa,
ma una combinazione di barriere sociali, culturali, fisiche
che i bambini e gli adolescenti con disabilità incontrano nella loro vita quotidiana.
La strategia per promuovere i loro diritti è adottare le azioni necessarie per rimuovere queste barriere.”






Comitato ONU sui diritti dell’infanzia




Il 21 maggio 2001, 191 Paesi partecipanti alla 54ma Assemblea Mondiale della Sanità hanno accettato la nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (International Classification of Functioning, Disability and Health -ICF)

come “standard di valutazione e classificazione di salute e disabilità”.






LE TIPOLOGIE DELLA DISABILITA' SECONDO UNA VECCHIA CLASSIFICAZIONE ERANO:

· Menomazione: qualsiasi perdita o anormalità a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche; essa rappresenta l’esteriorizzazione di uno stato patologico e in linea di principio essa riflette i disturbi a livello d’organo.
· Disabilità: qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a una menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano. La disabilità rappresenta l’oggettivazione della menomazione e come tale riflette disturbi a livello della persona. La disabilità si riferisce a capacità funzionali estrinsecate attraverso atti e comportamenti che per generale consenso costituiscono aspetti essenziali della vita di ogni giorno.
· Handicap: condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona (in base all’età, al sesso e ai fattori socio-culturali). Esso rappresenta la socializzazione di una menomazione o di una disabilità e come tale riflette le conseguenze – culturali, sociali, economiche e ambientali – che per l’individuo derivano dalla presenza della menomazione e della disabilità. Lo svantaggio deriva dalla diminuzione o dalla perdita delle capacità di conformarsi alle aspettative o alle norme proprie dell’universo che circonda l’individuo.





A differenza della precedente Classificazione l’ICF
non è una classificazione delle "conseguenze delle malattie"
ma delle "componenti della salute".
In tal senso l’ICF non riguarda solo le persone con disabilità ma tutte le persone proprio perché fornisce informazioni che descrivono il funzionamento umano e le sue restrizioni.
Inoltre, essa utilizza una terminologia più neutrale in cui Funzioni e Strutture Corporee, Attività e Partecipazione vanno a sostituire i termini di menomazione, disabilità e handicap.







L’ICF è suddiviso di due parti principali:
Parte 1 - Funzionamento e Disabilità,
Parte 2: Fattori Contestuali.

Ogni parte è poi composta da due componenti:
Parte 1 - Funzionamento e Disabilità:
  • Funzioni e strutture corporee, comprende due classificazioni una per le funzioni dei sistemi corporei e una per le strutture corporee
  • Attività e Partecipazione, comprende la gamma completa dei domini indicanti gli aspetti del funzionamento da una prospettiva sia individuale che sociale.
Parte 2- Fattori Contestuali:
  • Fattori Ambientali, comprende l’ambiente fisico, sociale e degli atteggiamenti in cui vivono le persone che possono avere un’influenza sulla capacità dell’individuo di eseguire azioni o compiti, o sul suo funzionamento o sulla struttura del corpo.
  • Fattori Personali, sono il background personale della vita e dell’esistenza di un individuo che possono giocare un certo ruolo nella disabilità ma non vengono classificati nell’ ICF.





I DIRITTI DE BAMBINI E DEGLI ADOLESCENTI CON DISABILITA’
Milano, 5 febbraio 2008
Antonio Sclavi, Presidente UNICEF-Italia



L’UNICEF Italia ha deciso di dedicare quest’anno di attività al tema della non discriminazione, uno dei principi fondamentali della Convenzione sui diritti dell’infanzia.
La Convenzione dedica un intero articolo - il 23 -

al tema della disabilità,

ma qui mi preme sin da subito dichiarare che questa attenzione particolare non deve far dimenticare che i bambini e gli adolescenti con disabilità sono prima di tutto bambini e adolescenti, hanno quindi gli stessi diritti riconosciuti a tutti gli altri minori di diciotto anni.
Con la ratifica da parte dello Stato italiano la Convenzione è diventata una legge.







Dal custodialismo all’inclusione sociale delle persone con disabilita’

Varese, 28 Marzo 2008- Sintesi intervento Dr. Michele Imperiali


Evoluzione dei diritti e delle politiche sociali
La convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (2007) ha rivoluzionato l’approccio alla persona con disabilità,

proponendo un modello finalmente impostato secondo i valori universali dei diritti umani di tutte le persone

Integrazione ! No grazie
Vi sono 3 concetti per spiegare l’evoluzione del rapporto

tra rispetto dei diritti delle persone con disabilità e approcci della società nel garantirne la forma della loro

partecipazione alla vita sociale.



Concetti, su cui il dibattito internazionale ed i più recenti documenti delle Nazioni Unite hanno chiarito il senso:


INSERIMENTO: è l’approccio che riconosce il diritto delle persone con disabilità ad avere un posto nella società, ma che si limita ad inserirle in un posto spesso separato dalla società (per es. un istituto o una classe speciale) o in una situazione passiva (quello che nel movimento delle persone con disabilità chiamiamo tappezzeria). La decisione su “dove” debbano vivere e “come” debbano essere trattate non è presa dalle persone con disabilità e dalle loro famiglie, nel caso non possano rappresentarsi da sole
INTEGRAZIONE: è il processo che garantisce alle persone con disabilità il rispetto dei diritti all’interno dei luoghi ordinari, senza però modificare le regole e i principi di funzionamento della società e delle istituzioni che li accolgono. Vi è dietro questa impostazione ancora una lettura basata sul modello medico della disabilità (tali persone sono malate, invalide, limitate e la disabilità viene considerata una condizione soggettiva causata dalle minorazioni; le persone con disabilità vanno tutelate sulla base di un intervento speciale, vedi per es. insegnante di sostegno). Prevale l’idea che le persone con disabilità siano speciali e vadano sostenute attraverso interventi prevalentemente tecnici.
INCLUSIONE: è il concetto che prevale nei documenti internazionali più recenti.

La persona con disabilità è considerata cittadino

a pieno titolo e quindi titolare di tutti i diritti

come gli altri cittadini.


Viene però riconosciuto che

la società si è organizzata in maniera tale da creare ostacoli, barriere e discriminazioni, che vanno rimosse e trasformate.

La persona con disabilità entra quindi nella comunità con pieni poteri e ha il diritto di partecipare alle scelte su come la società si organizza, sulle sue regole e sui principi di funzionamento






DISABILITA' E LAVORO



Cgil, 15 casi di discriminazione al giorno


"Un'Italia a due velocità e tanta arretratezza culturale".
Se la legge sull'inserimento lavorativo delle persone disabili
"è buona, è l'applicazione pratica che non funziona, soprattutto al Sud".
Il commento di Nina Daita, responsabile nazionale delle Politiche della disabilità di Cgil.


ROMA - All'Ufficio politiche della disabilità di Cgil arrivano, in media, 15 casi di discriminazione al giorno. A raccontare questa faccia del sindacato è Nina Daita, responsabile nazionale delle Politiche della disabilità di Cgil.




"In genere riceviamo una decina di e-mail più 4 o 5 telefonate al giorno. Si tratta di persone che arrivano sul posto di lavoro e vengono ‘emarginate' o a cui non viene dato nulla da fare - dice -.
La situazione peggiore riguarda le donne.
Allora, come sindacato, verifichiamo il caso, contattiamo le rsu dell'azienda ‘incriminata' e, se è necessario, intraprendiamo le vie legali.
A volte basta che Cgil si muova per far capire alle imprese che al proprio interno hanno una persona che è in grado di lavorare".





"Non è la legge sull'inserimento lavorativo delle persone disabili ad essere sbagliata, anzi è una delle migliori d'Europa perché si basa su percorsi individuali, ma è la sua applicazione pratica che non funziona, soprattutto al Sud. E così, anche in questo settore, si crea un'Italia a due velocità. Laddove le risorse scarseggiano e le istituzioni latitano il collocamento mirato non può non seguire le sorti dei territori a cui è demandato - continua Nina Daita -.
A tutto questo si deve poi aggiungere il discorso dell'arretratezza culturale del nostro Paese:
ma questo vale nel lavoro, come nella scuola e nella vita di tutti i giorni".
Per informazioni sui diritti delle persone disabili nel mondo del lavoro: http://www.cgil.it/ufficiohandicap/ (Michela Trigari)
(22 febbraio 2009)




handikap e barriere

L'Organizzazione Mondiale della Sanità definì l'handicap come prodotto dal rapporto tra persone disabili ed il loro ambiente (1980).

Una persona, infatti, diventa "handicappata" quando incontra barriere culturali, fisiche o sociali che le impediscono l'accesso ai vari sistemi della società aperti agli altri cittadini.














In questa accezione l'handicap corrisponde alla perdita o alla limitazione di opportunità di prendere parte alla vita della comunità allo stesso livello degli altri.











Recentemente (1999) l'OMS ha rivisto le proprie classificazioni, sostituendo il termine "handicap" con altri meno discriminanti (vedi)












multimedialità e disabilità





L’utilita’ della comunicazione multimediale
per i diversamente abili

di Maria Maddalena Rubaltelli

Mi chiamano tutti Marilena, sono tetraplegica dalla nascita e ho 54 anni.
Mi sono laureata in Psicologia nel 1982, presso l’Università di Padova, ho acquisito il titolo di sessuologa nel 1997 e sono iscritta al C.I.S..
Vivo a Padova, dove insegno presso i Corsi di Laurea in Fisioterapia e Neuro Psicomotricità dell’età evolutiva; in quest’ambito approfondisco l’evoluzione affettiva e sessuale delle persone diversamente abili, le diverse problematiche, i vissuti e le potenzialità.
Ho pubblicato un libro di narrativa intitolato “Non posso stare ferma”, edito dal Messaggero di Padova.
Sono attenta a promuovere la cultura dell’inclusione e ho approfondito in diverse occasioni la tematica dei diritti nascosti che non vengono riconosciuti alle persone diversamente abili.
Utilizzo da poco tempo un sistema di comunicazione con il quale posso parlare e vedere attraverso il computer le persone, in più non ho alcun onere economico; sono a conoscenza che ne esistono altri e trovo che questi mezzi multimediali siano molto utili. La cosa bella è che in questo modo posso osservare l’espressione, cogliere il sorriso o la tristezza di qualcuno che non mi è fisicamente vicino, guardare la sua gestualità e vederne così, almeno in parte, l’espressione corporea, tanto importante nelle relazioni.


Già con il telefono a viva voce, o l’uso delle cuffiette, avevo la possibilità di parlare senza che fosse necessaria la presenza di qualcuno che sorregga cornetta o cordless, con l’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione è però possibile attuare una maggiore autonomia e salvaguardare la privacy, diritto sacrosanto e poco riconosciuto per le persone con disabilità.



Esiste un altro vantaggio nell’utilizzare questi programmi di video-comunicazione ed è quello di cui usufruiscono i miei amici ipoudenti che possono osservare i movimenti labiali; per i non udenti inoltre è possibile comunicare con il linguaggio dei gesti.
Manca la possibilità del contatto corporeo, dell’abbraccio, così importante per tutti, forse di più per chi ha una limitazione ed è perciò ferito.
Credo ci siano altri vantaggi di questo sistema comunicativo, ma ancora non li ho sperimentati.
Una cosa interessante è la possibilità di comunicare in più di due persone, in video conferenza, utilizzata già dai manager, ma che può essere molto bella anche per una conversazione tra amici.
Credo che i mezzi della tecnologia debbano essere scoperti sempre più dalle persone diversamente abili per facilitare la comunicabilità e il contatto.
Si evolve attraverso il confronto, si cresce con l’alimento della relazione, si imparano nuove prospettive conoscendo il mondo degli altri.

ascoltare con il corpo--- vedere con la mente

Ecco un brano tratto dal romanzo della sensibile scrittrice per ragazzi Emanuela Nava (che ha tratto spunto per il suo racconto da un suo casuale incontro avuto con una persona sorda) in cui un personaggio è Kimu, un ragazzino africano sordo.

Il messaggio globale sulla sordità che trasmette tale libro è davvero positivo, come potete sentire anche dalla spiegazione della sua “diversità” che Kimu offre alla piccola Ilaria protagonista della storia:

“Tu senti con le orecchie, ma io sento con gli occhi e con la pelle. Con gli occhi leggo le tue labbra e con la pelle intuisco il trillo delle cose. Posso ballare al ritmo di un tamburo, sai. E posso sentire l’arrivo di un pericolo (…) perché ogni cosa che vive e si muove produce un trillo, un’oscillazione leggera, un soffio che l’intuito e il corpo possono percepire. - ‘Allora non è vero che sei sordo!’ disse Ilaria tutto d’un fiato. – ‘No, ma chi ci sente con le orecchie mi chiama così’.



Il disegnatore cieco

Appunti sull’arte e sulla traducibilità dei linguaggi in relazione alle deprivazioni sensoriali

di Paola Magi (*)

Ho visto un cieco disegnare.

E' stata un'esperienza così incredibile da spingermi a valutare cosa ci sia, nel disegno, che non pertiene all'occhio ma risiede nel modo in cui la mente organizza i dati sensoriali che di continuo le giungono.

Esref Armagan, pittore cieco:

estremamente abile, tocca l’oggetto da disegnare, poi utilizza le due mani contemporaneamente, tenendone una ferma su un angolo del foglio, e muovendo continuamente l'altra, che regge la matita, fra la mano ferma e il tracciato del disegno, così da valutare esattamente la disposizione spaziale della matita sulla superficie del foglio.

A ogni punto del foglio può così stabilire una corrispondenza esatta, perfettamente traducibile in termini geometrico-matematici, con il punto dello spazio, il contorno e la superficie dell'oggetto che vuole rappresentare, realizzando con mano e braccia un pantografo naturale.

Ogni tanto Esref tocca il foglio, per verificare a che punto sia.

Il risultato finale dell’operazione è un disegno, che i vedenti possono riconoscere con la vista:

ma lui, che l’ha realizzato senza vederlo, cosa ne percepisce?

Anche se può sentire il solco, non ha in nessun caso la possibilità di cogliere l’insieme di quello che ha fatto, ma solo piccoli tratti, corrispondenti alla superficie del polpastrello.

Quello che ‘vede’ non può essere altro che un equivalente modello mentale, basato su relazioni geometrico-matematiche.




al di là dei pregiudizi

Handicap: al di là dei pregiudizi
di: Nicoletta Ferrari
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Noi siamo portati a valorizzare il nostro modo di vedere e, corrispondentemente, a sottovalutare o ad attaccare tutto ciò che sembra contraddirlo o minacciarlo.
Cioè continuiamo ad attivare dei meccanismi di difesa che funzionano in quanto valvole di sfogo destinate a scaricare i malcontenti, le frustrazioni, le personali dissonanze ed ad alimentare la conflittualità sociale.
Ecco quindi che l’handicappato con le sue differenze psicosomatiche, organiche e funzionali, estetiche e comportamentali, suscita reazioni emotive verso, e talvolta contro, la propria persona, reazioni che traggono origine da meccanismi di difesa o da difficoltà di identificazione.
Infatti a tutti sarà certamente capitato di incontrare uomini che arrancano su una carrozzina, che vagano smarriti, chiusi nel loro delirio, o che si muovono con la difficoltà propria di chi non è padrone dei propri movimenti, o che articolano con estrema fatica sillabe difficilmente comprensibili.
Ciascuno di noi ha probabilmente avuto in quella circostanza la tentazione di fuggire per paura o è stato preso da un eccesso di commozione, o si è corazzato con l’indifferenza e il cinismo, per non provare dolore: manifestazioni tutte di disagio profondo di fronte a ciò che potremmo diventare in ogni momento.
Questi scomodi incontri fanno scattare in noi una profonda volontà di rimozione, quasi un disperato tentativo di allontanare una nostra cattiva immagine, che il soggetto che abbiamo di fronte ci rimanda e che avvertiamo come una minaccia.
Tentiamo allora in tutti i modi di distanziarci da quell'immagine, isolando ed emarginando la persona afflitta, così la sua menomazione o il suo deficit si trasforma, nel nostro contesto relazionale e sociale, in handicap.
Diversi non si nasce si diventa
Quindi diversi non si nasce per natura, lo si diventa per cultura.
Possiamo nascere con delle limitazioni fisiche, magari con dei deficit, ma non con degli handicap.

L’handicap è uno stato sociale ed appartiene alla sfera della personalità, cioè a quell'essere meno capace, rispetto agli altri, di avere rapporti armonici ed efficienti con il mondo che lo circonda.
La battaglia dei diversi è quindi quella di cercare di non essere più sottomessi, di essere ciò che sono senza avere vergogna, è mostrare le contraddizioni di questa società che non vuole sapere di loro, mentre fa finta di fare qualcosa per loro.
Infatti non sono solo gli atteggiamenti che emarginano l’handicappato, ma anche tutto l'ambiente che lo circonda.
Indubbiamente per gli handicappati che usano la sedia a ruote le scale, gli scalini, le porte e i corridoi molte volte troppo stretti, gli ascensori troppo piccoli sono ostacoli insuperabili; i telefoni pubblici, le cassette per le lettere, le maniglie, gli interruttori possono essere irraggiungibili, perché troppo alti; senza dire poi della difficoltà ad usare i mezzi di trasporto pubblico, treni, autobus, aerei, metropolitana.
Tutti questi ostacoli limitano la vita e la partecipazione sociale degli handicappati, ma purtroppo c'è una scarsa sensibilità di fronte a questi problemi, infatti non si è provveduto a rimuovere le barriere architettoniche neanche là dove si sarebbe potuto intervenire facilmente e con poca spesa.
Però a volte, un gradino, una rampa di scale, una porta stretta sono i disagi meno dolorosi da affrontare per un handicappato.
Gli sguardi compassionevoli o al contrario le occhiate di fastidio feriscono molto più chi è costretto a convivere con una minorazione.
E questo atteggiamento non risparmia nessuno, né padri, né madri. né fratelli, né parenti, né autorità di ogni tipo.
Purtroppo di fronte ai vari mutamenti evolutivi che si verificano (l’andare a scuola, il diventare adolescenti o l’andare a lavorare) la famiglia non si modifica e
l’handicappato resta spesso un eterno bambino,
pena il mettere in discussione l'assetto raggiunto e affrontare nuove angosce.
Si tratta di famiglie che non esaminano le potenzialità del proprio figlio, ostacolandolo nel suo cammino verso l'autonomia, mentre è solo affrontando l’età adulta che l’handicappato potrà sentirsi riconosciuto e compreso come persona.Il ragazzo disabile necessita ovviamente di cure, ma ha anche bisogno di capire, che possiede delle capacità, allorché esistono, che deve sfruttare al massimo, deve essere in grado di guardare positivamentea ciò che ha e non solo alle proprie carenze.

Etichette e pregiudizi
Importante sarebbe quindi riuscire ad ignorare l’etichetta assegnatagli di eterno bambino,
per stabilire un dialogo che non sia legato solo al suo sintomo e che quindi possa per lui diventare momento di evoluzione.
Se quando si pensa all’handicappato si pensa soltanto alle sue difficoltà, ai suoi deficit, difficilmente sipotrà realizare con lui un progetto educativo costruttivo.
La consapevolezza delle sue caratteristiche non deve mai portare ad una accettazione di queste come un limite prestabilito, bensì deve essere un punto di partenza su cui costruire per vivere l’handicap.Purtroppo difficilmente nelle programmazioni scolastiche si parte dal bambino diverso, si cercano piuttosto aggiustamenti, adattamenti, per adeguarlo a qualcosa di prestabilito e adatto per i normodotati.
L'effetto di questo atteggiamento è la limitazione delle esperienze proposte al soggetto in difficoltà, proprio perché l'interlocutore non è lui, ma i suoi limiti, le sue mancanze, i suoi sintomi.


È vero i limiti ci sono, però in base a quelli si possono trovare altre strade.Le scelte si possono fare, ma prendendo il diverso come interlocutore, mettendolo alla prova, parlandone anche con lui e soprattutto tenendo conto del fatto che ciò di cui questi ragazzi soffrono, non è soltanto un handicap, ma il ritornello: "Tu sei handicappato. Tu non puoi fare quello che fanno gli altri. Tu sei a parte".
L’handicappato ha invece sempre una parte "sana" a cui dobbiamo rivolgerci, che sottintende una carica umana da sviluppare, che permette di considerarlo come un essere umano, la cui vita ha certamente uno scopo e le cui risorse saranno utili alla società;
purtroppo, pochi hanno con il diverso un rapporto alla pari.Egli è troppo spesso solo un "caso", non un essere umano.
Lo aggrediamo con un linguaggio denso di stereotipi, un linguaggio in cui si possono facilmente individuare i nostri pregiudizi, le distorsioni non vitalizzate da un confronto costante, serio ed onesto con la realtà.
È un tenersi ancora una volta "lontano" dalle situazioni per non essere coinvolti, è uno snocciolare suggerimenti vuoti da manuale, soluzioni preconfezionate.
È una assoluta incapacità totale alI'ascolto attento per capire e, perché no, anche per imparare. Infatti l'attenzione di tutti è perennemente portata sull’handicap, sulla limitazione e così i bisogni veri, i tanti bisogni della persona in quanto tale, non vengono visti o non vengono riconosciuti, oppure vengono repressi o addirittura negati.

La sessualità negata
Anche la sessualità è un bisogno, è relazione, è contatto, è desiderio, è piacere e anche sofferenza, ma tutto questo passa attraverso il corpo e viene vissuto nel corpo, e questo è vero per tutti, tranne che per gli handicappati.
Ecco quindi che le manifestazioni erotiche sono percepite come anormalità da curare, oppure sono fonte di preoccupazione e di allarme per i genitori che vanno in ansia e si colpevolizzano. In questi casi la sessualità è vissuta come trauma, un risveglio dell'angoscia, pertanto deve essere cancellata, negata.Per i soggetti di sesso femminile l’indirizzo più seguito dai genitori è quello della repressione, ora imposta con dolcezza e persuasione, ora con minacce, ora con la somministrazione di farmaci, ma soprattutto con la distrazione, cioè impegnando l’handicappata in altre attività.Per i soggetti di sesso maschile c'è chi vorrebbe l’ evirazione, o prostitute, o addirittura l’incesto.Ma non si può negare a priori ad un individuo la possibilità di avere una vita affettiva, significa frustareuna parte della personalità, inibire un'esigenza naturale che chiunque ha il diritto di cercare di soddisfare in qualunque condizione si trovi, anche la più difficile.Il soggetto disabile non deve essere la fotocopia di una "normalità" che non esiste, ma un modo di vive-re che rispetti le varie esigenze dell'individuo senza che ciò comporti la separazione, scandalo o peggioancora pietà e commiserazione.Realizzarsi nella vita non vuole dire solo sapere fare certe cose che diano autonomia di movimenti, trovare una lavoro, una indipendenza economica, ma anche riuscire a realizzare la propria sessualità.
E la sessualità e l’affettività si possono realizzare pienamente in tanti modi.

Per una nuova cultura
Quindi per prima cosa, bisogna sempre cercare di capire quali siano le effettive esigenze e le effettive prospettive dell’handicappato, rimuovendo le incapacità e i pregiudizi che lo condannano al ruolo grottesco dell’ eterno bambino.
Infatti non ci potrà essere cambiamento nel soggetto, se non c'è anche cambiamento nella realtà in cui egli vive, perché non è solo il soggetto che deve acquisire regole di comportamento, ma anche chi sta attorno deve capire la realtà, i contenuti, gli specifici di una realtà che non deve spaventare ma arricchire.
È pertanto indispensabile un’ azione di educazione sociale, di consapevolezza, di accettazione vicendevole.
Un avvicinamento che non sia soltanto fisico, ma soprattutto psicologico e culturale.
Solo allora l’handicap, concepito abitualmente come assenza, mancanza, privazione, può essere visto come parte inevitabile del flusso della vita, uno dei tanti aspetti delI’esistenza con le sue peculiarità, accanto alla sofferenza e alla possibile ricchezza.

Indispensabile è quindi una nuova cultura che non neghi l’evidenza, la diversità, ma l’assuma come valore.

Ogni persona va valutata nella sua complessità e variabilità, con le sue piccolezze, i suoi limiti, ma anche con nascoste e insospettabili risorse e grandezze proprie di ogni essere.

Bisogna cioè cercare di dare a ciascuno la possibilità di essere riconosciuto per se stesso.
Uguaglianza di opportunità non significa dare a tutti le identiche cose, piuttosto dare a ciascuno quello che gli è indispensabile, affinché, con pari opportunità in rapporto alla propria personalità, ciascuno possa raggiungere una piena padronanza di se stesso.

martedì 7 aprile 2009

la siciliana ribelle...RITA ATRIA


                                                                          
                                                                      TEMA
La morte del giudice Falcone ripropone in termini drammatici il problema della mafia. Il candidato esprima le sue idee sul fenomeno e sui possibili rimedi per eliminare tale piaga.


SVOLGIMENTO
La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte del giudice Falcone.

Per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire.

Con lui è morta l'immagine dell'uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare.

Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.

Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un'immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perché tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai.

Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi.

Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c'e chi ha paura come Contorno, che accusa la giustizia di dargli poca protezione.

Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per rassicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un'altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.

L'unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti.

L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.

Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.



Rita Atria
Erice, 5 giugno 1992




"Rita, non t'immischiare, non fare fesserie" le aveva detto ripetutamente la madre, ma, Rita aveva incontrato Paolo Borsellino, un uomo buono che le sorride dolcemente, e lei parla, parla…racconta fatti. Fa nomi. Indica persone, compreso l'ex sindaco democristiano Culicchia, che ha gestito e governato il dopo terremoto.

"Fimmina lingua longa e amica degli sbirri" disse qualcuno intenzionalmente, e così al suo funerale, di tutto il paese, non andò nessuno.


Non andò neppure sua madre, che, disamorata, fredda e distaccata, l'
aveva ripudiata e minacciata di morte perché quella figlia così poco allineata, per niente assoggettata, le procurava stizza e preoccupazione.


Si recherà al cimitero parecchi mesi più tardi, e con un martello, dopo aver spaccato il marmo tombale, rompe pure la fotografia della figlia, una foto di Rita appena adolescente.





Ha preferito morire per vivere.









Il 26 luglio 1992, Rita si toglie la vita lanciandosi dal settimo piano di via Amelia.
Una settimana esatta dalla morte dello "zio" Paolo, nella stessa ora.
Piera Aiello, cognata e amica


Il giudice Borsellino













PARTANNA



LA STORIA DI RITA

Figlia di un piccolo boss di quartiere facente capo agli Accardo, Rita Atria è nata e cresciuta a Partanna, piccolo comune del Belice, una vasta zona divenuta famosa perché distrutta dal terremoto. Un territorio in cui, in quel periodo, si dice circolasse denaro proveniente dal narcotraffico, e di cui Rita non sopporta le brutture, le vigliaccherie, la tristezza. L'ignavia delle donne.

"Una donna sa sempre cosa sta combinando suo marito o suo figlio" ha spiegato Piera Aiello moglie di Nicola Atria, fratello di Rita, e lei condivide con convinzione. Sensibile all'inverosimile, eppur ostinata, caparbia, fin dall'adolescenza dimostra di essere molto dura ed autonoma. A casa sua, faide, ragionamenti, strategie, vecchi rancori, interessi di ogni tipo, erano all'ordine del giorno, perché, suo padre, don Vito Atria, ufficialmente pastore di mestiere, era un uomo di rispetto che si occupava di qualsiasi problema; per tutti trovava soluzioni; fra tutti, metteva pace, "…per questioni di principio e di prestigio…- sosteneva Rita - senza ricavarne particolari vantaggi economici…" tranne quello di rubare bestiame tranquillamente ed avere buoni rapporti con tutti quelli che contavano.


Cionostante, il 18 novembre dell'85, don Vito Atria, non avendo capito che il tempo è cambiato, e che la droga impone un cambio generazionale, è stato ucciso. Rita innanzi a quel cadavere crivellato di colpi, fra gli urli e gli impegni di rappresaglia dei famigliari, anche se appena dodicenne, dentro di sé, comincia ad rimestare vendetta. Ma la morte del padre le lascia un vuoto. Rita, allora, riversa tutto il suo affetto e la sua devozione sul fratello Nicola. Ma Nicola era un "pesce piccolo" che col giro della droga, aveva fatto i soldi e conquistato potere. Girava sempre armato e con una grossa moto.

Quello con il fratello diventa un rapporto molto intenso, fatto di tenerezza, amicizia, complicità, confidenze. E' Nicola, infatti, che le dice delle persone coinvolte nell'omicidio del padre, del movente; chi comanda in paese, le gerarchie, cosa si muove, chi tira le fila… trasformando così una ragazzina di diciassette anni, in custode di segreti più grandi di lei.


Tutto ciò non le impedisce di innamorarsi e fidanzarsi con Calogero, un giovane del suo paese. Fino al 24 giugno del 91, il giorno in cui anche suo fratello Nicola viene ucciso e sua cognata Piera Aiello che da sempre aveva contestato a quel marito le frequentazioni e i suoi affari, collabora con la giustizia e fa arrestare un sacco di persone. Calogero interrompe il fidanzamento con Rita perché cognata di una pentita e sua madre Giovanna va in escandescenze.


Dopo il trasferimento in località segreta di Piera e dei suoi figli, Rita a Partanna è veramente sola: rinnegata dal fidanzato e dalla mamma, non sa con chi parlare, con chi scambiare due parole. Sottomettersi come sua madre o ribellarsi?

All'inizio di novembre, ad appena diciassette anni, decide di denunciare il sistema mafioso del suo paese e vendicare così l'assassinio del padre e del fratello.

Incontra il giudice Paolo Borsellino, un uomo buono che per lei sarà come un padre, la proteggerà e la sosterrà nella ricerca di giustizia; tenterà qualche approccio per farla riappacificare con la madre.

La ragazzina inizia così una vita clandestina a Roma. Sotto falso nome, per mesi e mesi non vedrà nessuno, e soprattutto non vedrà mai più sua madre. L'unico conforto è il giudice.

Ma arriva l'estate del '92 e ammazzano Borsellino, Rita non ce la fa ad andare avanti. Una settimana dopo si uccide
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Graziella Proto




SPETTACOLI & CULTURA
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Arriva nelle sale il film di Marco Amenta, ispirato alla vera, tragica storia della Atria
Figlia di criminali, collaboratrice di Borsellino, si suicidò 7 giorni dopo la sua morte

Storia di Rita, "La siciliana ribelle"
che a 17 anni osò sfidare la mafia

Parla il regista:

"Mostro gli uomini d'onore così come sono, senza romanticismo"


Storia di Rita, "La siciliana ribelle" che a 17 anni osò sfidare la mafia
Veronica D'Agostino nel film

il suo desiderio non è più la vendetta, ma la giustizia.


ROMA - Nell'infinita mattanza di mafia, nel mare di dolore che Cosa Nostra ha provocato in Sicilia, la storia di Rita Atria resta una delle più tristi, più commoventi, più tenere. Quella di una ragazzina che ad appena 17 anni decide di denunciare gli assassini di padre e fratello, entrambi uomini d'onore. E che instaura un rapporto forte col giudice Paolo Borsellino. L'epilogo, però, è tragico: lei riesce a far condannare molti degli uomini del clan, ma si suicida sette giorni dopo la strage di via d'Amelio. Visto che, morto il magistrato, le resta solo l'odio dei suoi compaesani e perfino di sua madre. Così furiosa con la figlia da arrivare a profanare la sua tomba a martellate.

E adesso questa vicenda di coraggio e di lotta, di giovinezza tradita e di sangue, approda sul grande schermo.
Con un film che alla vera figura di Rita Atria è solo liberamente ispirato. Si chiama La Siciliana ribelle, è già passato con successo all'ultimo Festival di Roma, ed è diretto da un autore emergente dalla forte personalità: il palermitano Marco Amenta, che si era fatto notare per la sua bella docufiction su Bernardo Provenzano, Il fantasma di Corleone. E che alla Atria aveva già dedicato un documentario, dal titolo simile - Diario di una siciliana ribelle.

La pellicola di finzione che sta per uscire nelle nostre sale, distribuita dall'Istituto Luce, è ambientata in un paese siciliano immaginario, dove vive una bambina, Rita Mancuso (Miriana Fajia), adorata dal papà, mafioso locale (Marcello Mazzarella). L'uomo però viene ucciso sotto gli occhi della figlia; e alcuni anni dopo - nel 1991, quando Rita (Veronica D'Agostino) ha ormai 17 anni - viene ammazzato anche suo fratello Carmelo (Carmelo Galati).

Assetata di vendetta, decisa a farla pagare al mandante dei due omicidi (il boss Salvo Rimi, interpretato da Mario Pupella), decide di andare a parlare con un magistrato palermitano (l'attore francese Gerard Jugnot). A lui, e solo a lui, la ragazza consegna i suoi diari, in cui ha annotato tutte le attività criminali che si svolgono nel suo paese.
Comincia così la sua collaborazione con la giustizia:
si trasferisce a Roma sotto falso nome, inizia una storia d'amore con un ragazzo "normale" (Primo Reggiani).

All'inizio, Rita è mossa solo da una furia cieca verso chi ha massacrato i suoi familiari, ma non mette affatto in discussione la mafia: per lei, il papà e il fratello sono degli eroi. Poi però, anche grazie al suo rapporto con giudice, la sua ottica cambia:

come dirà in aula, al processo che vede alla sbarra tutti i criminali del suo Paese, il suo desiderio non è più la vendetta, ma la giustizia. Ma poi il giudice suo amico viene fatto saltare in aria col tritolo: e a lei non resta che un gesto estremo di sfida, di lotta...

Il tutto in un film solido, con una bella interpretazione della protagonista Veronica D'Agostino. Attrice già vista in Respiro di Emanuele Crialese, e che - per una di quelle strane coincidenze della vita - ha interpretato la figlia di Borsellino, nella fiction televisiva sul magistrato. Meno felice, invece, la scelta di affidare un personaggio carismatico come il magistrato a Gerard Jugnot; ma il film è una coproduzione italo-francese, e dunque la presenza di un attore d'oltralpe tra gli interpreti principali era d'obbligo.

Altra caratteristica: la sua rappresentazione molto cruda e realistica di Cosa Nostra. Che Amenta oggi, in conferenza stampa, rivendica:
"Sono palermitano, ho lavorato sia come fotoreporter che come regista di documentari, ho fotografato morti ammazzati, ho incontrato i figli di Riina, ho conosciuto magistrati e poliziotti. Perciò qui non mi sono rifatto all'iconografia classica del cinema mafiologico, ma alla realtà concreta. Mostrando, come ha già fatto Gomorra, come nella criminalità organizzata non ci sia nessun romanticismo alla Padrino".

Ma Amenta sembra avercela soprattutto con alcune fiction italiane. "Fenomeni come gli amici del boss Matteo Messina Denaro o Riina su Facebook - attacca - mostrano come la rappresentazione della mafia, ad esempio in tv, può essere dannosa. Anche solo per il fatto di far essere i mafiosi protagonisti: il pubblico tende a identificarsi col personaggio che sullo schermo compare più tempo. Nel caso di personaggi inventati va pure bene, ma se sono reali, con nome e cognome, la cosa è deleteria".

Ultima annotazione: il film è stato visto ed è piaciuto alla moglie di Borsellino, mentre i parenti rimasti vivi della Atria - la cognata e la nipote, anche loro collaboratrici di giustizia - hanno fatto sapere di non apprezzare l'idea di trasformare la storia in un film. "Le invito a confrontarci pubblicamente - conclude Amenta - ho cambiato nomi e situazioni proprio per tutelare la loro privacy".

(25 febbraio 2009)


un commento
Sicuramente bel film. Però secondo me un siciliano potrebbe sentirsi un po’offeso da certi adattamenti del film e luoghi comuni. Anche se la trama è forte di significati serve rispetto per chi ha fatto si che la sua morte abbia dato inizio a uno scontro tra mafia e giustizia ad armi pari. Perchè senza dubbi prima di ciò la parità non c'era...

cgp risponde
Un siciliano che conosce i problemi della mafia in Sicilia perchè dovrebbe sentirsi offeso? Nascondere la verità ed i problemi del proprio paese per apparire migliori di quello che si è mi sembra un atteggiamento molto sbagliato e molto vicino alla mentalità basata sull'omertà. Inoltre è un modo per fingere di non vedere e quindi non impegnarsi nella lotta per un mondo migliore