mercoledì 11 settembre 2013

11 SETTEMBRE 1973

Oggi ricorre l'anniversario di una delle pagine più nere della 


nostra epoca. L'11 settembre 1973 le forze armate cilene 


guidate dal Generale Pinochet misero in atto il golpe cileno 


contro Allende. Durante l'assedio e la successiva presa del 


Palacio de La Moneda, Allende decise allora di uccidersi 


piuttosto che arrendersi a Pinochet.


« Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano. Ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento.»






La giornata dell’11 settembre Allende entró presto al palazzo della Moneda alla guida della sua Fiat 125 assieme agli uomini del Gap, la guardia personale. Quella mattina era stato avvisato per telefono degli sviluppi del golpe, coordinato dall’ammiraglio Patricio Carvajal con l’appoggio dei capi supremi delle Forze Armate: Gustavo Leigh, Augusto Pinochet, José Merino e César Mendoza. Tutti, nei giorni precedenti, gli avevano assicurato appoggio per la preparazione del plebiscito con cui si pretendeva risolvere la crisi istituzionale. Si trattava peró di un bluff, visto che i militari non avevano nessuna intenzione di sottomettere il futuro del Cile alla volontá popolare, ma di assumere il potere in forma violenta.
Alle nove i golpisti avvisarono il presidente che se la Moneda non sarebbe stata sgombrata per le undici, sarebbe stata attaccata da carri armati ed aerei da combattimento. Ad Allende venne anche offerto di abbandonare il Paese, ma il presidente declinó l’offerta cosí che alle dieci i primi carri armati fecero ingresso nella piazza del palazzo. Quindici minuti dopo Allende dava l’ultimo messaggio alla nazione, attraverso la radio Magallanes, l’unica fedele al governo a non essere ancora stata oscurata:

¨Saró sempre con voi, almeno il mio ricordo sará quello di un uomo degno che fu leale ai lavoratori¨ 

domenica 8 settembre 2013

8 Settembre 1943


8 Settembre 1943, l'armistizio
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8 settembre 1943, una data fatidica per l'Italia. La data dell'annuncio dell'armistizio con gli Alleati e della fine dell'alleanza militare con la Germania, ma anche la data della dissoluzione dell'esercito italiano e della cattura di centinaia di migliaia di militari, a causa della mancanza di precise disposizioni da parte dei Comandi militari. La data dei primi episodi di Resistenza contro i tedeschi (a Roma, a Cefalonia, a Corfù, in Corsica, nell'isola di Lero), ma anche la data della frettolosa fuga del Re e dei membri del governo Badoglio a Brindisi (senza un piano di emergenza e senza disposizioni ai militari), che però servì ad assicurare la continuità dello Stato italiano nelle regioni liberate del Sud. C'è chi, come Galli Della Loggia, a proposito dell'8 settembre, ha parlato di "Morte della Patria", e chi, come il presidente Ciampi, ha replicato che quel giorno è morta una certa idea di Patria, quella fascista, e ne è nata un'altra, quella democratica.




http://www.storiaxxisecolo.it/Anpi/iosonoultimo.htm

«Ai ragazzi dico questo. Pensate le cose impensabili. Si può sopravvivere a una guerra. Si può saltare un cancello alto alto con delle lance acuminate in cima e resistere a un tempo che vuole scambiare la giovinezza con la fame e la morte. Si può scappare dai campi di concentramento in Germania usando un filo di ferro. Si può ritornare a casa quando tutto sembra distrutto e perduto e ricominciare da capo. E sapere, sul treno di ritorno, con le macerie che passano dai finestrini, che a casa ti stanno aspettando tua moglie e tua figlia».
Ferruccio Mazza, Ferrara, 1921, operaio

da "Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani italiani" - Einaudi


A sessant'anni da Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana di Malvezzi e Pirelli, Einaudi propone una nuova emozionante antologia: la piú grande epopea della nostra storia raccontata dalle voci dei suoi ultimi protagonisti.
"Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani italiani " è curato da Stefano Faure, Andrea Liparoto e Giacomo Papi.

Oltre cento lettere piene di amore, amicizia, di odio e violenza. Un indimenticabile racconto corale sul fascismo, la libertà e la democrazia. I partigiani, prima di tutto, erano giovani. Si innamoravano, scoprivano di avere paura e coraggio. 

In queste lettere, raccolte con la collaborazione dell'Anpi, i testimoni viventi della Resistenza raccontano le torture, le bombe, i rastrellamenti. Ma anche la nascita di un bambino, un bacio mai dato, il piacere di mangiare o ridere in classe del Duce.

Un racconto emozionante, vivo, collettivo che arriva dal passato per parlare al presente. Il ricordo della guerra di Liberazione diventa giudizio sull'Italia di oggi.

 Come ha scritto Paola Doriga su la Repubblica: “Le loro storie sono la nostra memoria. Le storie dei nostri nonni, che ci hanno raccontato quando magari non avevamo voglia di ascoltare, e che adesso non sappiamo dire quanto ci dispiace non potere più ascoltare. Le storie dei nostri nonni o dei nonni che ci siamo scelti, arrivate con una parola, con un libro, con una canzone”.

OVIDIO Piramo e Tisbe e le bacche del gelso

PIRAMO E TISBE

                                           http://www.tanogabo.it/Piramo_Tisbe.htm
Testo tratto da: www.progettoovidio.it
«Pìramo e Tisbe, lui di tutti i giovani il più bello, lei unica fra tutte le fanciulle che ha avuto l'Oriente,
abitavano in case contigue.Grazie alla vicinanza si conobbero e nacquero i primi vincoli: col tempo crebbe l'amore. E si sarebbero uniti in matrimonio, se i genitori non l'avessero impedito; ma impedire non poterono che perdutamente ardessero l'uno dell'altra.
Nessuno ne è al corrente, si parlano a cenni, a gesti, e quel fuoco nascosto più lo si nasconde, più divampa.
Da una sottile fessura, formatasi già al tempo della costruzione, era solcato il muro comune alle due case.
Quel difetto, ignoto a tutti per centinaia d'anni (cosa mai non scopre l'amore?), voi, innamorati, per primi lo scorgeste e l'usaste come via per parlarvi: di lì ben protette passavano giorno per giorno in un sussurro le vostre effusioni.
Spesso, immobili, Tisbe da una parte, Pìramo dall'altra, dopo aver spiato a vicenda i propri aneliti:"Muro invidioso", dicevano, "perché ti frapponi al nostro amore? Quanto ti costerebbe lasciarci unire con tutto il corpo
o, se questo è troppo, aprirti perché potessimo baciarci? Non siamo degli ingrati: sappiamo di doverti già molto, se a orecchie amiche permetti che giungano le nostre voci".


Pronunciate invano, l'uno dall'altra divisi, queste parole, a notte si salutarono e ognuno alla sua parte di muro impresse baci senza speranza che s'incontrassero.
L'aurora seguente aveva rimosso i fuochi della notte, il sole sciolto coi suoi raggi la brina nei prati e loro si ritrovarono in quel luogo. Con lieve bisbiglio allora, dopo essersi a lungo lamentati, decisero di eludere i custodi, di tentare la fuga nel silenzio della notte e, una volta fuori casa, lasciare la stessa città; ma per non smarrirsi, vagando in aperta campagna, stabilirono d'incontrarsi al sepolcro di Nino e di nascondersi al buio sotto un albero: quello che imbiancato di bacche lì si trovava, un alto gelso appunto, vicino a una gelida sorgente.
Questo l'accordo; e la luce, che sembrava non volersene andare, calò a un tratto nel mare e da quel mare si levò la notte. Di soppiatto aprendo la porta, Tisbe uscì, senza farsi sentire dai suoi, nelle tenebre e, col volto velato, giunta al sepolcro, sedette sotto l'albero convenuto: audace la rendeva amore.
 Quand'ecco che, con le fauci schiumanti sangue per la strage di un armento, venne a spegnere la sete sua nella fonte accanto una leonessa.
Di lontano ai raggi della luna la vide Tisbe e con le gambe tremanti corse a rifugiarsi in un antro oscuro, ma nel fuggire lasciò cadere per l'ansia il velo dalle spalle.
La belva feroce, placata a furia d'acqua la sua sete, mentre tornava nel bosco, trovò per caso abbandonato a terra quel velo delicato e lo stracciò con le fauci sporche di sangue.
Uscito più tardi, Pìramo scorse in mezzo all'alta polvere le orme inconfondibili di una belva e terreo si fece in volto. Quando poi trovò la veste macchiata di sangue: "Una, una sola notte", gridò, "manderà a morte due innamorati. Di noi era lei la più degna di vivere a lungo; colpevole è l'anima mia. Io, sventurata, io ti ho ucciso,
io che ti ho spinto a venire di notte in luoghi così malsicuri, e neppure vi venni per primo. Dilaniate il mio corpo,
divorate con morsi feroci quest'uomo scellerato voi, voi leoni, che vi rintanate sotto queste rupi! Ma è da vili chiedere la morte".
Raccolse il velo di Tisbe e lo portò con sé al riparo dell'albero convenuto; poi, dopo avere intriso di lacrime e baci quella cara veste:
"Imbibiti ora", esclamò, "anche di un fiotto del sangue mio!".
E si piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco, poi, ormai morente, fulmineo lo trasse dalla ferita aperta
e cadde a terra supino. Schizza alle stelle il sangue, come accade se, logoratosi il piombo, un tubo si fende
e da un foro sottile sibilando esce un lungo getto d'acqua, che sferza l'aria con la sua violenza.
I frutti dell'albero, spruzzati di sangue, divengono cupi e, di sangue intrisa, la radice tinge di vermiglio i grappoli delle bacche.
Ed ecco che, ancora impaurita, per non deludere l'amato, lei ritorna e con gli occhi e il cuore cerca il giovane,
impaziente di narrargli a quanti pericoli è sfuggita. Ma se riconosce il luogo e la forma della pianta, la rende incerta il colore dei frutti: in forse se sia quella.
Ancora in dubbio, vede un corpo agonizzante che palpita a terra in mezzo al sangue; arretra e, col volto più pallido del legno di bosso, rabbrividisce come s'increspa il mare, se una brezza leggera ne sfiora la superficie.
Ma dopo un attimo, quando in lui riconosce il suo amore, in pianto disperato si percuote le membra innocenti,
si strappa i capelli abbracciata al corpo dell'amato, colma la ferita di lacrime, confonde il pianto col sangue suo e, imprimendo baci su quel volto gelido, grida:
"Quale sventura, quale, Pìramo, a me ti ha strappato? Pìramo, rispondi! Tisbe, è la tua amatissima Tisbe che ti chiama. Ascoltami, solleva questo tuo volto inerte!".
Al nome di Tisbe Pìramo levò gli occhi ormai appesantiti dalla morte e, come l'ebbe vista, per sempre li richiuse.
Solo allora lei riconobbe la sua veste e scorse il fodero d'avorio privo del pugnale:
 "La tua, la tua mano e il tuo amore ti hanno perso, infelice! Ma per questo anch'io ho mano ferma," disse, "e ho il mio amore: mi darà lui la forza d'uccidermi. Nell'oblio ti seguirò; si dirà che per sciagura fui io causa
e compagna della tua fine. Solo dalla morte, ahimè, potevi essermi strappato, ma neanche da quella potrai esserlo ora. Pur travolti dal dolore esaudite almeno, voi che genitori siete d'entrambi, la preghiera che insieme vi rivolgiamo: non proibite che nello stesso sepolcro vengano composte le salme di chi un amore autentico e l'ora estrema unì. E tu, albero che ora copri coi tuoi rami il corpo sventurato d'uno solo di noi e presto coprirai quelli di entrambi, serba un segno di questo sacrificio e mantieni i tuoi frutti sempre parati a lutto in memoria del nostro sangue!"
Questo disse, e rivolto il pugnale sotto il suo petto, si lasciò cadere sulla lama ancora calda di sangue.

E almeno la preghiera commosse gli dei, commosse i genitori: per questo il colore delle bacche, quando sono mature, è nero e ciò che resta del rogo in un'urna unica riposa».

PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, IV, vv. 55-166





mercoledì 4 settembre 2013

4 settembre 1904 Buggerru




Nel 1904 primo sciopero lotte operaie Buggerru ricorda le vittime







Il primo sciopero delle lotte operaie risale al 4 settembre 1904, la data storica è stata ricordata a Buggerru, piccolo centro minerario sulle costa sud-occidentale della Sardegna, dove vennero uccisi quattro lavoratori dai soldati italiani mandati a reprimere una manifestazione di protesta per le dure condizioni di lavoro imposte dalla società mineraria che gestiva il sito. Oggi alla manifestazione, che ha visto la deposizione di una corona di alloro sulla lapide che ricorda il fatto, erano presenti oltre al sindaco ed agli amministratori locali, anche i rappresentanti dei sindacati. Sono stati ricordati i tragici fatti che hanno segnato la storia del paese e del movimento sindacale italiano, in un momento in cui la Sardegna e l'intera Italia vivono un difficile momento economico e sociale.



Era settembre del 1904 quanto a Buggerru avvenne un episodio "sconvolgente" per quei tempi: la presentazione di una "piattaforma rivendicativa" da parte degli operai che lavoravano nella locale miniera di proprietà di una società francese, la Societé Anonymes des Mines, e con un direttore turco. A sostegno di questa vertenza i minatori proclamarono il 4 settembre uno sciopero che fu stroncato dall'intervento dell'esercito. Alla fine, per terra (in quella che è stata poi intitolata la "Piazza dell'eccidio") restarono tre minatori morti e 11 feriti (uno di loro morì in ospedale dopo poco più di un mese). L'episodio varcò subito i confini dell'isola e il 16 settembre 1904 la Camera del Lavoro di Milano proclamò - sull'onda emotiva di un altro analogo evento avvenuto pochi giorni dopo a Castelluzzo, nel trapanese - il primo sciopero generale in Italia. In occasione del cinquantenario dei moti di Buggerru fu il leader storico della Cgil Di Vittorio a concludere la manifestazione commemorativa, sottolineando la scossa alle coscienze che diede quell' episodio drammatico. Un evento ricordato oggi da lavoratori, ex minatori, sindacalisti, amministratori locali che hanno partecipato, sotto la pioggia, alla cerimonia nella piccola piazza dove su un muro, vicino a un aiuola con al centro sculture in pietra dei caduti, vi è una targa ricordo con la scritta "Sardegna dolce madre taciturna, non mai sangue più puro e innocente di questo, ti bruciò il core".










COSA SUCCEDE IN SIRIA?


Siria, doppia trappola nel Mediterraneo in armi

Il Mare Nostrum è strategico per i raid, ma ospita anche gli obiettivi ideali per possibili ritorsioni. Gli Usa inviano una portaerei. E Mosca mobilita la sua flotta

Sta per arrivare tempesta nelle acque del Mediterraneo: la portaerei americana Nimitz è in rotta dall'oceano Indiano verso il mar Rosso, insieme con il suo gruppo navale, quattro cacciatorpediniere e un incrociatore. Il Pentagono sostiene che non ha l'ordine di entrare nel Mediterraneo, ma sarà comunque presto pronta per sostenere un attacco alla Siria. Al largo della costa siriana, la Us Navy schiera già cinque cacciatorpediniere, dotati di missili da crociera Tomahawk, e forse anche uno o più sottomarini.

Mosca invece ha fatto partire dalle base ucraina di Sebastopoli, nel mar Nero, la nave spia Ssv-201 Priazovye. Farà riferimento al porto di Tartus, in Siria, unica base russa al di fuori dell'area dell'ex Urss. La nave da ricognizione si affianca alle quattro unità militari già presenti nel Mediterraneo, e allo schieramento dovrebbe aggiungersi presto anche un mezzo per la lotta ai sommergibili. 

Ma ancora non c'è nessuna decisione sulle ipotesi di intervento. Obama non sembra del tutto convinto dalle prove messe insieme dalla sua intelligence, e forse sente di aver messo America e alleati in una doppia trappola: di Assad, pronto a reagire se attaccato, dei ribelli, se insoddisfatti dell'intervento. Lo scenario mediterraneo non garantisce esiti scontati, la minaccia siriana di rappresaglia è tutt'altro che peregrina. L'apparato militare americano è vulnerabile, perché troppo esteso, troppo tecnologico e troppo caro. E le forze da combattimento americane sono bersagli "paganti", in tutto il mondo. 

La minaccia di Assad più verosimilmente sarà diretta contro Israele e il Libano, ma non si possono escludere attacchi anche successivi contro i paesi della eventuale coalizione o contro quelli che ospitano basi americane. La ritorsione delle squadre terroriste dei ribelli potrà essere rivolta contro coloro che non sono intervenuti. E qui l'Europa e l'Italia che fingono di non essere interessate alla questione militare si trovano in prima linea. "Non concedere le basi" agli americani è una tipica foglia di fico. Non fa desistere chi le vuole colpire e non interessa gli americani le cui basi sono regolate da accordi bilaterali che non sempre prevedono clausole limitative e comunque non si applicano quando la sicurezza americana è in gioco.

Un attacco al Libano sarebbe un disastro per Unifil che schiera circa 11.000 soldati di 32 nazioni, di cui oltre mille italiani. La missione è praticamente in ostaggio di israeliani ed Hezbollah (che nei giorni scorsi ha mobilitato i militanti), quindi della Siria e dell'Iran. Anche i russi, con la loro unica base navale all'estero proprio in Siria sono a loro modo ostaggi della Siria e quindi delle iniziative americane. 

Nel Mediterraneo e aree limitrofe le forze americane hanno sedi permanenti nella base di Lajes nelle Azzorre (territorio portoghese), in Spagna ci sono le basi di Moron De La Frontera, Torrejon e Rota. In Grecia le basi di Soudha, Makri e Eraklion. Nei Balcani ci sono forze e basi in Bosnia, Kosovo, Ungheria, Macedonia, Bulgaria e Romania. In Turchia ci sono le basi aeree e radar di Cigli, Mus e Incirlik, il centro Ripetitori Radio di Karatas, il deposito carburanti di Yumurtalik, il comando aereo Nato di Smirne e le strutture di supporto navale di Smirne e Ankara. La stazione radar di Incirlik dipende dal Comando strategico Usa e quindi fa parte del sistema missilistico e da bombardamento nucleare. Ed è a distanza di tiro. 

Dal Golfo Persico al mare Arabico fino al Corno d'Africa ci sono basi e reparti in Qatar, Bahrein, Arabia Saudita, Dubai, Abu Dhabi, Oman, Kuwait, Yemen e Gibuti. In Egitto c'è il Terzo Centro di ricerca di medicina navale e in Israele è stata di recente attivata la stazione antimissile di Nevatim, nei pressi della centrale nucleare di Dimona. Israele ospita anche nel porto di Haifa alcune strutture di supporto per la Sesta flotta che opera nel Mediterraneo. 

In Italia sono presenti circa 10.000 soldati in 64 installazioni. Il comando della Marina americana in Europa, fino a pochi anni fa dislocato a Londra, oggi è a Napoli. Il comando della Sesta flotta è a Gaeta mentre i cacciabombardieri sono dislocati ad Aviano. A Livorno c'è una base logistica dell'esercito che serve tutto il Medio Oriente. Altre basi sono a Capodichino e Lago Patria di Napoli e a Vicenza (dove c'è l'unica forza terrestre americana aerotrasportata per interventi rapidi), altre installazioni sono a Catania, Coltano e Ghedi. A Sigonella l'Aeronautica italiana "ospita" una base della Marina Usa che gestisce gli aerei spia, i trasporti aerei da e per il Medio Oriente, i rifornimenti in volo e i droni Global Hawk che saranno senz'altro fra i mezzi scelti per l'attacco. Un altro obiettivo "pagante" si trova a pochi chilometri da Sigonella, nell'area protetta della sughereta di Niscemi, dove gli americani stanno installando una delle quattro basi terrestri del Muos: il sistema globale di trasmissione satellitare di dati per il comando dei mezzi militari nel mondo.

http://www.repubblica.it/esteri/2013/09/03/news/siria_mediterraneo_in_armi-65779917/