domenica 8 settembre 2013

OVIDIO Piramo e Tisbe e le bacche del gelso

PIRAMO E TISBE

                                           http://www.tanogabo.it/Piramo_Tisbe.htm
Testo tratto da: www.progettoovidio.it
«Pìramo e Tisbe, lui di tutti i giovani il più bello, lei unica fra tutte le fanciulle che ha avuto l'Oriente,
abitavano in case contigue.Grazie alla vicinanza si conobbero e nacquero i primi vincoli: col tempo crebbe l'amore. E si sarebbero uniti in matrimonio, se i genitori non l'avessero impedito; ma impedire non poterono che perdutamente ardessero l'uno dell'altra.
Nessuno ne è al corrente, si parlano a cenni, a gesti, e quel fuoco nascosto più lo si nasconde, più divampa.
Da una sottile fessura, formatasi già al tempo della costruzione, era solcato il muro comune alle due case.
Quel difetto, ignoto a tutti per centinaia d'anni (cosa mai non scopre l'amore?), voi, innamorati, per primi lo scorgeste e l'usaste come via per parlarvi: di lì ben protette passavano giorno per giorno in un sussurro le vostre effusioni.
Spesso, immobili, Tisbe da una parte, Pìramo dall'altra, dopo aver spiato a vicenda i propri aneliti:"Muro invidioso", dicevano, "perché ti frapponi al nostro amore? Quanto ti costerebbe lasciarci unire con tutto il corpo
o, se questo è troppo, aprirti perché potessimo baciarci? Non siamo degli ingrati: sappiamo di doverti già molto, se a orecchie amiche permetti che giungano le nostre voci".


Pronunciate invano, l'uno dall'altra divisi, queste parole, a notte si salutarono e ognuno alla sua parte di muro impresse baci senza speranza che s'incontrassero.
L'aurora seguente aveva rimosso i fuochi della notte, il sole sciolto coi suoi raggi la brina nei prati e loro si ritrovarono in quel luogo. Con lieve bisbiglio allora, dopo essersi a lungo lamentati, decisero di eludere i custodi, di tentare la fuga nel silenzio della notte e, una volta fuori casa, lasciare la stessa città; ma per non smarrirsi, vagando in aperta campagna, stabilirono d'incontrarsi al sepolcro di Nino e di nascondersi al buio sotto un albero: quello che imbiancato di bacche lì si trovava, un alto gelso appunto, vicino a una gelida sorgente.
Questo l'accordo; e la luce, che sembrava non volersene andare, calò a un tratto nel mare e da quel mare si levò la notte. Di soppiatto aprendo la porta, Tisbe uscì, senza farsi sentire dai suoi, nelle tenebre e, col volto velato, giunta al sepolcro, sedette sotto l'albero convenuto: audace la rendeva amore.
 Quand'ecco che, con le fauci schiumanti sangue per la strage di un armento, venne a spegnere la sete sua nella fonte accanto una leonessa.
Di lontano ai raggi della luna la vide Tisbe e con le gambe tremanti corse a rifugiarsi in un antro oscuro, ma nel fuggire lasciò cadere per l'ansia il velo dalle spalle.
La belva feroce, placata a furia d'acqua la sua sete, mentre tornava nel bosco, trovò per caso abbandonato a terra quel velo delicato e lo stracciò con le fauci sporche di sangue.
Uscito più tardi, Pìramo scorse in mezzo all'alta polvere le orme inconfondibili di una belva e terreo si fece in volto. Quando poi trovò la veste macchiata di sangue: "Una, una sola notte", gridò, "manderà a morte due innamorati. Di noi era lei la più degna di vivere a lungo; colpevole è l'anima mia. Io, sventurata, io ti ho ucciso,
io che ti ho spinto a venire di notte in luoghi così malsicuri, e neppure vi venni per primo. Dilaniate il mio corpo,
divorate con morsi feroci quest'uomo scellerato voi, voi leoni, che vi rintanate sotto queste rupi! Ma è da vili chiedere la morte".
Raccolse il velo di Tisbe e lo portò con sé al riparo dell'albero convenuto; poi, dopo avere intriso di lacrime e baci quella cara veste:
"Imbibiti ora", esclamò, "anche di un fiotto del sangue mio!".
E si piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco, poi, ormai morente, fulmineo lo trasse dalla ferita aperta
e cadde a terra supino. Schizza alle stelle il sangue, come accade se, logoratosi il piombo, un tubo si fende
e da un foro sottile sibilando esce un lungo getto d'acqua, che sferza l'aria con la sua violenza.
I frutti dell'albero, spruzzati di sangue, divengono cupi e, di sangue intrisa, la radice tinge di vermiglio i grappoli delle bacche.
Ed ecco che, ancora impaurita, per non deludere l'amato, lei ritorna e con gli occhi e il cuore cerca il giovane,
impaziente di narrargli a quanti pericoli è sfuggita. Ma se riconosce il luogo e la forma della pianta, la rende incerta il colore dei frutti: in forse se sia quella.
Ancora in dubbio, vede un corpo agonizzante che palpita a terra in mezzo al sangue; arretra e, col volto più pallido del legno di bosso, rabbrividisce come s'increspa il mare, se una brezza leggera ne sfiora la superficie.
Ma dopo un attimo, quando in lui riconosce il suo amore, in pianto disperato si percuote le membra innocenti,
si strappa i capelli abbracciata al corpo dell'amato, colma la ferita di lacrime, confonde il pianto col sangue suo e, imprimendo baci su quel volto gelido, grida:
"Quale sventura, quale, Pìramo, a me ti ha strappato? Pìramo, rispondi! Tisbe, è la tua amatissima Tisbe che ti chiama. Ascoltami, solleva questo tuo volto inerte!".
Al nome di Tisbe Pìramo levò gli occhi ormai appesantiti dalla morte e, come l'ebbe vista, per sempre li richiuse.
Solo allora lei riconobbe la sua veste e scorse il fodero d'avorio privo del pugnale:
 "La tua, la tua mano e il tuo amore ti hanno perso, infelice! Ma per questo anch'io ho mano ferma," disse, "e ho il mio amore: mi darà lui la forza d'uccidermi. Nell'oblio ti seguirò; si dirà che per sciagura fui io causa
e compagna della tua fine. Solo dalla morte, ahimè, potevi essermi strappato, ma neanche da quella potrai esserlo ora. Pur travolti dal dolore esaudite almeno, voi che genitori siete d'entrambi, la preghiera che insieme vi rivolgiamo: non proibite che nello stesso sepolcro vengano composte le salme di chi un amore autentico e l'ora estrema unì. E tu, albero che ora copri coi tuoi rami il corpo sventurato d'uno solo di noi e presto coprirai quelli di entrambi, serba un segno di questo sacrificio e mantieni i tuoi frutti sempre parati a lutto in memoria del nostro sangue!"
Questo disse, e rivolto il pugnale sotto il suo petto, si lasciò cadere sulla lama ancora calda di sangue.

E almeno la preghiera commosse gli dei, commosse i genitori: per questo il colore delle bacche, quando sono mature, è nero e ciò che resta del rogo in un'urna unica riposa».

PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, IV, vv. 55-166