PIRAMO E TISBE
Testo tratto da: www.progettoovidio.it
«Pìramo
e Tisbe, lui di tutti i giovani il più bello, lei unica fra tutte le fanciulle
che ha avuto l'Oriente,
abitavano
in case contigue.Grazie alla vicinanza si conobbero e nacquero i primi vincoli:
col tempo crebbe l'amore. E si sarebbero uniti in matrimonio, se i genitori non
l'avessero impedito; ma impedire non poterono che perdutamente ardessero l'uno
dell'altra.
Nessuno
ne è al corrente, si parlano a cenni, a gesti, e quel fuoco nascosto più lo si
nasconde, più divampa.
Da
una sottile fessura, formatasi già al tempo della costruzione, era solcato il
muro comune alle due case.
Quel
difetto, ignoto a tutti per centinaia d'anni (cosa mai non scopre l'amore?),
voi, innamorati, per primi lo scorgeste e l'usaste come via per parlarvi: di lì
ben protette passavano giorno per giorno in un sussurro le vostre effusioni.
Spesso,
immobili, Tisbe da una parte, Pìramo dall'altra, dopo aver spiato a vicenda i
propri aneliti:"Muro invidioso", dicevano, "perché ti frapponi
al nostro amore? Quanto ti costerebbe lasciarci unire con tutto il corpo
o,
se questo è troppo, aprirti perché potessimo baciarci? Non siamo degli ingrati:
sappiamo di doverti già molto, se a orecchie amiche permetti che giungano le
nostre voci".
Pronunciate
invano, l'uno dall'altra divisi, queste parole, a notte si salutarono e ognuno
alla sua parte di muro impresse baci senza speranza che s'incontrassero.
L'aurora
seguente aveva rimosso i fuochi della notte, il sole sciolto coi suoi raggi la
brina nei prati e loro si ritrovarono in quel luogo. Con lieve bisbiglio
allora, dopo essersi a lungo lamentati, decisero di eludere i custodi, di
tentare la fuga nel silenzio della notte e, una volta fuori casa, lasciare la
stessa città; ma per non smarrirsi, vagando in aperta campagna, stabilirono d'incontrarsi
al sepolcro di Nino e di nascondersi al buio sotto un albero: quello che
imbiancato di bacche lì si trovava, un alto gelso appunto, vicino a una gelida
sorgente.
Questo
l'accordo; e la luce, che sembrava non volersene andare, calò a un tratto nel
mare e da quel mare si levò la notte. Di soppiatto aprendo la porta, Tisbe
uscì, senza farsi sentire dai suoi, nelle tenebre e, col volto velato, giunta
al sepolcro, sedette sotto l'albero convenuto: audace la rendeva amore.
Quand'ecco che, con le fauci schiumanti sangue
per la strage di un armento, venne a spegnere la sete sua nella fonte accanto una
leonessa.
Di
lontano ai raggi della luna la vide Tisbe e con le gambe tremanti corse a
rifugiarsi in un antro oscuro, ma nel fuggire lasciò cadere per l'ansia il velo
dalle spalle.
La
belva feroce, placata a furia d'acqua la sua sete, mentre tornava nel bosco,
trovò per caso abbandonato a terra quel velo delicato e lo stracciò con le
fauci sporche di sangue.
Uscito
più tardi, Pìramo scorse in mezzo all'alta polvere le orme inconfondibili di
una belva e terreo si fece in volto. Quando poi trovò la veste macchiata di
sangue: "Una, una sola notte", gridò, "manderà a morte due
innamorati. Di noi era lei la più degna di vivere a lungo; colpevole è l'anima
mia. Io, sventurata, io ti ho ucciso,
io
che ti ho spinto a venire di notte in luoghi così malsicuri, e neppure vi venni
per primo. Dilaniate il mio corpo,
divorate
con morsi feroci quest'uomo scellerato voi, voi leoni, che vi rintanate sotto
queste rupi! Ma è da vili chiedere la morte".
Raccolse
il velo di Tisbe e lo portò con sé al riparo dell'albero convenuto; poi, dopo
avere intriso di lacrime e baci quella cara veste:
"Imbibiti
ora", esclamò, "anche di un fiotto del sangue mio!".
E
si piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco, poi, ormai morente,
fulmineo lo trasse dalla ferita aperta
e
cadde a terra supino. Schizza alle stelle il sangue, come accade se, logoratosi
il piombo, un tubo si fende
e
da un foro sottile sibilando esce un lungo getto d'acqua, che sferza l'aria con
la sua violenza.
I
frutti dell'albero, spruzzati di sangue, divengono cupi e, di sangue intrisa,
la radice tinge di vermiglio i grappoli delle bacche.
Ed
ecco che, ancora impaurita, per non deludere l'amato, lei ritorna e con gli
occhi e il cuore cerca il giovane,
impaziente
di narrargli a quanti pericoli è sfuggita. Ma se riconosce il luogo e la forma
della pianta, la rende incerta il colore dei frutti: in forse se sia quella.
Ancora
in dubbio, vede un corpo agonizzante che palpita a terra in mezzo al sangue;
arretra e, col volto più pallido del legno di bosso, rabbrividisce come
s'increspa il mare, se una brezza leggera ne sfiora la superficie.
Ma
dopo un attimo, quando in lui riconosce il suo amore, in pianto disperato si
percuote le membra innocenti,
si
strappa i capelli abbracciata al corpo dell'amato, colma la ferita di lacrime,
confonde il pianto col sangue suo e, imprimendo baci su quel volto gelido, grida:
"Quale
sventura, quale, Pìramo, a me ti ha strappato? Pìramo, rispondi! Tisbe, è la
tua amatissima Tisbe che ti chiama. Ascoltami, solleva questo tuo volto
inerte!".
Al
nome di Tisbe Pìramo levò gli occhi ormai appesantiti dalla morte e, come
l'ebbe vista, per sempre li richiuse.
Solo
allora lei riconobbe la sua veste e scorse il fodero d'avorio privo del pugnale:
"La tua, la tua mano e il tuo amore ti
hanno perso, infelice! Ma per questo anch'io ho mano ferma," disse,
"e ho il mio amore: mi darà lui la forza d'uccidermi. Nell'oblio ti
seguirò; si dirà che per sciagura fui io causa
e
compagna della tua fine. Solo dalla morte, ahimè, potevi essermi strappato, ma
neanche da quella potrai esserlo ora. Pur travolti dal dolore esaudite almeno,
voi che genitori siete d'entrambi, la preghiera che insieme vi rivolgiamo: non
proibite che nello stesso sepolcro vengano composte le salme di chi un amore
autentico e l'ora estrema unì. E tu, albero che ora copri coi tuoi rami il
corpo sventurato d'uno solo di noi e presto coprirai quelli di entrambi, serba
un segno di questo sacrificio e mantieni i tuoi frutti sempre parati a lutto in
memoria del nostro sangue!"
Questo
disse, e rivolto il pugnale sotto il suo petto, si lasciò cadere sulla lama
ancora calda di sangue.
E
almeno la preghiera commosse gli dei, commosse i genitori: per questo il colore
delle bacche, quando sono mature, è nero e ciò che resta del rogo in un'urna
unica riposa».
PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, IV, vv. 55-166