leggi il testo: http://electra.leonardo.it/blog/funes_o_della_memoria.html
“Funes o della memoria” (“Funes el memorioso”, tratto da Ficciones, 1944) è un amaro racconto di Jorge Luis Borges nel quale si narra la storia, ambientata in Uruguay a fine Ottocento, di un giovane, Ireneo Funes, la cui condanna è quella di avere una prodigiosa memoria che gli permette di cogliere ogni dettaglio di tutto ciò che lo circonda. Il “cronometrico Funes” è un giovane uruguayano dai tratti indiani, un tipo bislacco e taciturno, la cui vicenda viene resa da un narratore identificabile con l’autore. Se da un lato Funes riesce a ricordare ogni cosa con estrema facilità, dall’altro non è in grado di formulare idee generali, la sua memoria registra solo particolari e non concetti compiuti. Questa condizione lo conduce, infine, all’isolamento e all’incomunicabilità
il racconto è ambientato nel periodo storico di fine 1800, in Uruguay, in un mondo ancora rurale ma già pronto a lanciarsi nel nuovo secolo, che sarà il secolo dell’industria e delle invenzioni, dei meccanismi, delle grandi esposizioni commerciali e scientifiche, dunque un mondo sospeso tra due visioni della vita, una (al tramonto) ancora semplice e in qualche modo magica e una seconda (agli albori) pronta ad ubriacarsi di tecnologia al punto tale da farne la propria religione e la propria forma accettabile di magia. Anche il protagonista è un povero contadino ma che ha una straordinaria capacità di sapere sempre l'ora esatta.
Il narratore garantisce sulla verità di ciò che andrà narrando, definisce il periodo temporale (1884-1887), la zona geografica (Fray Bentos), il tipo di rapporto che lo ha legato al protagonista, il numero di volte in cui lo ha incontrato (tre) e ci specifica anche che la sua testimonianza sarà imparziale e, si intuisce, andrà a far parte di un qualche compendio insieme ad altre testimonianze sulla figura di Ireneo Funes el memorioso, che dunque – immaginiamo - deve aver raggiunto una fama che ha travalicato i confini della cittadina dove si svolgono i fatti.
Questo primo approccio serve a stringere col lettore il cosiddetto patto di credulità, come spesso avviene nella tecnica dei romanzi storici o realistici, (per esempio attraverso la finzione del ritrovamento del manoscritto come fa MANZONI nei Promessi sposi). E’ l’io narrante stesso che ha vissuto ciò che racconta, dunque va creduto.
La parte centrale del racconto ci propone le circostanze del primo incontro, casuale e fugace (nel “giorno sette febbraio dell’anno ottantaquattro”), dove intravvediamo Ireneo poco più (o poco meno) che bambino che corre e, senza interrompere la sua corsa risponde alla domanda del cugino del narratore che gli chiede che ore sono. La risposta, " Mancano quattro minuti alle otto ", fornita quasi come un riflesso condizionato, ci fornisce le prime indicazioni di una forma di diversità che in qualche modo affligge il ragazzo, anche se ancora non sappiamo se si tratti di virtù o di patologia.
La terza parte ci informa dell’incidente occorso al protagonista, della sua infermità e del conseguente dono (o condanna) che l’incidente ha portato come sua conseguenza.
Non è importante indagare la causa medica, né se questo potenziamento abnorme della memoria sia verosimile o meno nella realtà , ciò che importa sono le sue conseguenze. Il narratore, e dunque testimone oculare della vicenda, si trova a Fray Bentos, ha con sé una serie di testi in latino, e un dizionario, col quale si aiuta.
Venutolo a sapere Ireneo chiede di poter fruire per qualche giorno di qualche testo latino e del dizionario. La richiesta è singolare, e così pare al narratore, che gli fa comunque avere il Gradus ad Parnassum di Quicherat e la Naturalis Historia di Plinio.
Dopo pochi giorni il narratore riceve un telegramma poco rassicurante sulle condizioni di salute del padre e, prima di intraprendere il viaggio di ritorno, si reca alla casa di Ireneo per tornare in possesso dei suoi libri.
Non è importante indagare la causa medica, né se questo potenziamento abnorme della memoria sia verosimile o meno nella realtà , ciò che importa sono le sue conseguenze. Il narratore, e dunque testimone oculare della vicenda, si trova a Fray Bentos, ha con sé una serie di testi in latino, e un dizionario, col quale si aiuta.
Venutolo a sapere Ireneo chiede di poter fruire per qualche giorno di qualche testo latino e del dizionario. La richiesta è singolare, e così pare al narratore, che gli fa comunque avere il Gradus ad Parnassum di Quicherat e la Naturalis Historia di Plinio.
Dopo pochi giorni il narratore riceve un telegramma poco rassicurante sulle condizioni di salute del padre e, prima di intraprendere il viaggio di ritorno, si reca alla casa di Ireneo per tornare in possesso dei suoi libri.
Qui ha inizio il motivo centrale e fondamentale del racconto, che contiene il suo messaggio filosofico.
Il narratore entra nella stanza di Ireneo, ma la stanza è buia, e può solo sentire una voce che parla correntemente in latino. Per tutta la durata della sua conversazione col protagonista non avrà modo di distinguerne i lineamenti, solo col sopraggiungere delle prime luci della mattina vedrà il volto del suo interlocutore.
Il tema della della cecità, seppur temporanea, è importante per Borges (che l’ha vissuta di persona). La cecità rappresenta il modo con cui Borges percepisce il mondo: un mondo chiaroscuro, eternamente circonfuso di ombre. Alla difficoltà del narratore di mettere a fuoco la realtà si contrappone la lucidità folle di Ireneo che è letteralmente condannato a ricordare tutto. Nulla sfugge alla sua capacità mnemonica, neppure il più piccolo particolare, ed egli è sprovvisto di una capacità selettiva che gli permetta di isolare i particolari essenziali da quelli importanti. Ciò che fa del suo potenziale dono una condanna. E infatti Ireneo racconta e spiega i suoi progetti assurdi e dementi di cercare un sistema che gli permetta di ordinare e controllare in un sistema la mole infinita dei suoi ricordi (una ricerca di verità e di conoscenza assoluta della realtà che risulta impossibile e appunto soltanto folle).
Il tema della della cecità, seppur temporanea, è importante per Borges (che l’ha vissuta di persona). La cecità rappresenta il modo con cui Borges percepisce il mondo: un mondo chiaroscuro, eternamente circonfuso di ombre. Alla difficoltà del narratore di mettere a fuoco la realtà si contrappone la lucidità folle di Ireneo che è letteralmente condannato a ricordare tutto. Nulla sfugge alla sua capacità mnemonica, neppure il più piccolo particolare, ed egli è sprovvisto di una capacità selettiva che gli permetta di isolare i particolari essenziali da quelli importanti. Ciò che fa del suo potenziale dono una condanna. E infatti Ireneo racconta e spiega i suoi progetti assurdi e dementi di cercare un sistema che gli permetta di ordinare e controllare in un sistema la mole infinita dei suoi ricordi (una ricerca di verità e di conoscenza assoluta della realtà che risulta impossibile e appunto soltanto folle).
La memoria di Ireneo non è altro che una delle incarnazioni possibili dell’infinito e dell’impossibilità dell’uomo non solo di gestirlo, ma addirittura di capirlo.
Più che di fronte al dramma del non poter non ricordare ci troviamo faccia a faccia col dramma dell’inutilità del ricordo perché esso stesso soverchia il significato e lo annulla nella ripetizione infinita di immagini e sensazioni inutilizzabili.
“Pedro Leandro Ipuche ha scritto che Funes fu un precursore dei superuomini, “uno Zarathustra selvatico e vernacolare”; non lo metto in dubbio, ma non si deve dimenticare che fu anche un cittadino di Fray Bentos, con certe incurabili limitazioni.
Funes è uno strano superuomo, strano perché la sua superiore intelligenza sembra opera di un prodigio di natura o di uno scherzo, una beffa del destino, e Funes è solo un povero contadino . Come il pastore errante di LEOPARDI la sua intelligenza non è frutto della civiltà, della cultura, del progresso: egli rappresenta l’uomo nel suo essere primitivo e istintivo, di fronte all’INFINITO ed al suo MISTERO.
“Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche ecc. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia”.
La sua superiore capacità di memorizzare non lo rende come il superuomo di Nietzche al di sopra del bene e del male, nel senso che non lo rende capace di controllare e dominare il mondo, ma al contrario, egli finisce con essere al di fuori del bene e del male, cioè incapace di inserirsi nella realtà, di comprenderla nei suoi nessi logici, nel suo svolgersi nel tempo e nello spazio, troppo occupato a selezionarla e suddividerla in sempre più piccoli particolari : non può apprezzarla nel suo quadro d’insieme e quindi non è capace di viverla, di interagire con essa.
“Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso […]Gli era molto difficile distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano”.
Ireneo Funes, legato al narratore da una conoscenza occasionale e quasi del tutto superficiale, in giovane età rimane paralizzato dopo un incidente a cavallo.
Da quel momento in avanti la sua memoria diviene prodigiosa (e dunque mostruosa) e la sua vita si biforca: da una parte quella psichica ossessionata e condannata dalle funzioni sproporzionate che ha raggiunto la sua memoria, e dall’altra l’immobilità fisica che lo vede costretto a vivere tutti i suoi giorni in una stanza e, al più, verso sera, a guardare una minima porzione di mondo dalla finestra. Privato del movimento, perde il senso dello spazio fisico, che non può più percorrere in corsa illimitatamente. Gli rimane la vista che Ireneo Funes gode dalla FINESTRA, che però non è quella potenzialmente infinita a cui Leopardi aspira guardando dal colle di Recanati attraverso la SIEPE.
«Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare»
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare»
L’INFINITO di LEOPARDI è un INFINITO SPAZIO- TEMPORALE E SPIRITUALE (corrispondente all’IMMORTALITA’) costituito da un TUTTO nel quale la mente razionale del poeta annega e si perde -“in questa immensità s’annega il pensier mio e naufragar m’è dolce in questo mare”- perché egli sa che la Natura crudele ha creato l’uomo sempre insoddisfatto, in cerca di una felicità infinita, un bene illimitato, e nello stesso tempo lo ha creato mortale in un mondo esclusivamente materiale e perciò finito e limitato. Ciò renderà l’uomo sempre sofferente ed infelice. L’infinito fisico spaziale per Leopardi non esiste realmente, ma è una finzione della mente, dell’immaginazione, un’illusione creata proprio dalla difficoltà (la siepe che impedisce l’intera visuale) ad arrivare ad una risposta certa con i mezzi sensibili.
L’INFINITO di Funes è una visione realmente infinita perché ogni oggetto, ogni colore, ogni sfumatura, ogni alito di vento vengono percepiti dal protagonista in maniera lancinante e perfetta, totale, e, peggio, ogni particolare registrato rimanda la mente di Ireneo ad altri ricordi memorizzati che a loro volta richiamano altri ricordi, e così via in maniera esponenziale.
Ciò lo porta ad appiattire il senso del tempo in un eterno presente – perché il passato è sempre vivo nel suo ricordo come se non trascorresse – . Fuori dallo spazio e dal tempo egli è un non-uomo, un automa senza capacità di soffermarsi sui sentimenti, sui legami con cose e persone, schiacciato dal peso delle cose e dei ricordi
Il filosofo Paolo Rossi parla così della differenza tra la memoria di un cervello umano e quella di una macchina:
"C'è un film molto bello che si chiama "Blad Runner", dove ci sono dei replicanti che sono assolutamente identici agli esseri umani e che vivono in mezzo a loro e che non sanno di essere dei replicanti. Il loro problema è questo. E poi c'è — nel momento in cui si affaccia nella mente di una di queste replicanti, che nel caso specifico era una donna — il dubbio di essere un replicante, cioè di non essere un vero essere umano, ma un automa, quindi qualcuno che ha una memoria che gli è stata inserita nel cervello come in una macchina e che non è la memoria vera; ecco allora c'è una crisi di questa persona che, guardando delle vecchie fotografie ingiallite su un pianoforte, si domanda se sono ricordi veri o sono falsi. Il dubbio che quei ricordi siano falsi la getta in una angoscia terribile, perché è una persona che non può avere nostalgia del passato. Ecco l'assenza della nostalgia, l'assenza della memoria è, come si dice comunemente - mi sembra una cosa tuttora valida - una perdita dell'identità. "
La memoria, dice Paolo Rossi, costituisce l'identità di un individuo, ma anche l'identità collettiva, ma il punto è capire come si ottiene questa identità, che tipo di memoria viene attivata, che genere di ricordi ne fanno parte e qui entra in gioco il tema della dimenticanza, cioè la memoria deve essere necessariamente selettiva ed il cervello deve necessariamente cancellare la maggior parte dei ricordi che risultano superflui ed il cui affollamento ucciderebbero la mente portandola alla pazzia:
IL TEMA DELLA FOLLIA - ALIENAZIONE ED INCOMUNICABILITA’ DELL’UOMO LEGATO AI MITI DELLA MODERNITA’ – LA MACCHINA- è trattato anche da
PIRANDELLO - NEI QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE
Serafino Gubbio, napoletano, dopo aver esaurito una piccola eredità facendo una «vita da scapigliato» fra giovani artisti, va Roma e si imbatte in un vecchio amico sardo, Simone Pau, che lo conduce nel suo albergo, un Ospizio di Mendicità. Qui arriva una troupe di attori della Casa cinematografica La Kosmograph per la ripresa «di un interno dal vero» . La troupe ha come direttore di scena Nicola Polacco, amico d'infanzia di Serafino. Polacco gli offre un lavoro di operatore alla Kosmograph, un ruolo adatto a chi ha raggiunto la «perfetta impassibilità» e può agevolmente ridursi a «una mano che gira la manovella» della macchina da presa. Serafino accetta l'impiego anche perché vuole osservare da vicino una delle attrici , Varia Nestoroff,un'inquietante avventuriera russa, che, con la sua prorompente personalità aveva distrutto la vita di persone a lui care. Varia Nestoroff era stata infatti fidanzata di un giovane pittore di Sorrento, Giorgio Mirelli, che Serafino aveva conosciuto quando era ancora studente. Giorgio viveva con la nonna e la sorella , fidanzata ad Aldo Nuti, attore dilettante. Alla vigilia delle nozze tra Giorgio e Varia, Aldo Nuti, per dimostrare all'amico l'indegnità della donna che stava per sposare, divenne l'amante di Varia. Giorgio, ferito dal tradimento, si uccise. L'orrore del tragico evento allontanò i due amanti. Ma Aldo Nuti, diviso tra amore e odio per la donna - che intanto era divenuta prima attrice della Kosmograph - per riavvicinarla si fece scritturare come attore dalla Casa cinematografica. La Nestoroff è ora l'amante di un attore siciliano, Carlo Ferro, uomo all'apparenza grossolano e violento . I rapporti di Varia con gli uomini sono oggetto di particolare studio da parte di Serafino Gubbio che osserva: «Nemici per lei diventano gli uomini, a cui ella s'accosta, perché la aiutino ad arrestare ciò che di lei le sfugge: lei stessa».
Alla Kosmograph si prepara un nuovo film di soggetto indiano, La donna e la tigre, con una scena finale molto rischiosa, in cui un cacciatore dovrà affrontare una tigre e abbatterla.
Il ruolo del cacciatore è affidato a Carlo Ferro, ma all'ultimo momento Aldo Nuti ottiene di sostituirlo.
L'attore, seguito da Serafino Gubbio con la sua manovella, entra in una grande gabbia, le cui sbarre sono state preparate per simulare la giungla; attorno al set Varia Nestoroff e altri attori assistono alla scena. Al «si gira», nella gabbia viene introdotta la tigre; Aldo Nuti imbraccia il fucile, ma rivolge la mira sulla Nestoroff che cade morta; la tigre si lancia su Nuti e lo sbrana prima di essere abbattuta. A Serafino, che con impassibile professionalità aveva ripreso la scena, la voce, per il terrore gli «s'era spenta in gola, per sempre». Il film, per la morbosa curiosità suscitata dalla «volgare atrocità del dramma», sarà un successo e Serafino, ridotto a un «silenzio di cosa», acquisterà l'agiatezza, ma continuerà « - solo, muto e impassibile - a far l'operatore».
Siamo, con la prima edizione del romanzo, nel 1915: le macchine che incombono nella nostra vita sono quelle belliche, in una atmosfera pervasa da fremiti futuristi. Il presagio di Pirandello è quello di una Terra devastata dalla follia distruttiva dell'uomo/macchina e ancor di più, il presentimento che, forse, proprio questo esito apocalittico possa essere l'unica via rigeneratrice dell'essere uomo: "mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s'accelera, non abbia ridotto l'umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin dei conti, tanto di guadagnato. Non peraltro, badiamo: per fare una volta tanto punto e a capo".L'attore, seguito da Serafino Gubbio con la sua manovella, entra in una grande gabbia, le cui sbarre sono state preparate per simulare la giungla; attorno al set Varia Nestoroff e altri attori assistono alla scena. Al «si gira», nella gabbia viene introdotta la tigre; Aldo Nuti imbraccia il fucile, ma rivolge la mira sulla Nestoroff che cade morta; la tigre si lancia su Nuti e lo sbrana prima di essere abbattuta. A Serafino, che con impassibile professionalità aveva ripreso la scena, la voce, per il terrore gli «s'era spenta in gola, per sempre». Il film, per la morbosa curiosità suscitata dalla «volgare atrocità del dramma», sarà un successo e Serafino, ridotto a un «silenzio di cosa», acquisterà l'agiatezza, ma continuerà « - solo, muto e impassibile - a far l'operatore».
E così afferma
SVEVO nel profetico finale de LA COSCIENZA DI ZENO-
L’UMANITA’ E GLI ORDIGNI
"Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c'era altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte piú considerevole del suo organismo. La talpa s'interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s'ingrandí e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre piú furbo e piú debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha piú alcuna relazione con l'arto. Ed è l'ordigno che crea la malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del piú forte sparí e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie".
Nella letteratura gli scrittori hanno espresso soprattutto la paura della modernità e della macchina, anche quelli che volevano esaltarla l’hanno fatto attraverso immagini aggressive e violente, o profondamente negative, dimostrando più o meno inconsciamente l’incertezza e la debolezza dell’uomo rispetto alla capacità di controllo delle immense forze che la macchina può scatenare .
Le immense possibilità che la tecnologia offre all’uomo sono in effetti tali da illuderlo di poter dominare il mondo come appunto il “superumo” di Nietzche, che paga il pegno disumanizzandosi e diventando un signore del male. Abbiamo visto che le caratteristiche della macchina per quanto perfette possano essere ed infinitamente superiori alle possibilità umane, non possono sostituire l’uomo senza modificare la sua essenza, ma non potranno mai superare l’uomo in qualità bensì soltanto in quantità.
Quando gli uomini impareranno a servirsi della tecnologia e della scienza come mezzi utili a migliorare l’esistenza dell’umanità, a ricostituire il giusto rapporto con la natura e l’equilibrio tra progresso e sviluppo a livello globale, allora forse le macchine e gli automi non faranno più paura a nessuno perché nessuno potrà correre il rischio di scambiarli con gli esseri umani dotati di cuore e sensibilità.