SINTESI
DELL’OPERA
PREFAZIONE
“Sia le vittime che gli oppressori avevano viva la consapevolezza dell'enormità,
e quindi della non credibilità, di quanto avveniva nei Lager . “ i militi
delle S.S. si divertivano ad ammonire cinicamente i prigionieri: «In qualunque
modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l'abbiamo vinta noi;
nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno
scampasse, il mondo non gli crederà. Noi distruggeremo le prove insieme con
voi. E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi
sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo
mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda
alleata, e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi.»” Molte
delle prove materiali degli stermini di massa furono soppresse, o si cercò di
sopprimerle:
nell'autunno del 1944 i nazisti fecero saltare le camere a gas e i crematori di
Auschwitz, Il ghetto di Varsavia, fu raso
al suolo, tutti gli archivi dei Lager sono stati bruciati negli ultimi giorni
di guerra tanto che ancora oggi non si ha la conferma del numero esatto delle
vittime (quattro o sei od otto milioni); dopo la svolta di Stalingrado si decise di eliminare i cadaveri che erano
stati accatastati nelle fosse comuni: gli stessi prigionieri furono costretti a
disseppellire quei resti ed a bruciarli su roghi all'aperto. I comandi S.S. ed
i servizi di sicurezza fecero in modo che nessun testimone sopravvivesse. Ma
qualcuno ha pure avuto la fortuna e la forza di sopravvivere, ed è rimasto per
testimoniare, così come sono rimaste le rovine dei campi.
I principali testimoni sono gli stessi nazisti, molti dei quali hanno negato di sapere. Non si saprà mai quanti,
nell'apparato nazista, non sapessero nulla o sapessero qualcosa, ma fingessero
d'ignorare. Comunque sia è certo che la
mancata diffusione della verità sui Lager costituisce una delle maggiori colpe
collettive del popolo tedesco, e la più aperta dimostrazione della viltà a
cui il terrore hitleriano lo aveva ridotto. Molti
sono i potenziali testimoni «civili» : società industriali, aziende
agricole, fabbriche di armamenti, che traevano profitto dalla mano d'opera pressoché
gratuita fornita dai campi, o che rifornivano i Lager di legname, materiali per costruzione, il
tessuto per l'uniforme a righe dei prigionieri, i vegetali essiccati per la
zuppa, eccetera. Gli stessi forni crematori , l’acido cianidrico che fu
impiegato nelle camere a gas di Auschwitz: erano forniti da ditte che dovevano
sapere, o almeno avere forti sospetti, ma essi furono soffocati dalla paura, dal desiderio di guadagno, in alcuni casi dalla fanatica obbedienza
nazista.
Il materiale più consistente per la ricostruzione della verità sui
campi è costituito dalle memorie dei
superstiti, ma esse vanno lette con occhio critico: nelle loro condizioni
disumane , era raro che i prigionieri potessero acquisire una visione d'insieme
del loro universo, spaesati ed ignari di tutto ciò che li circondava. Così
erano la maggioranza dei prigionieri «normali»,
dei non privilegiati, e, di questi, pochissimi sono scampati alla morte. Solo
chi otteneva qualche privilegio riusciva a sopravvivere: “la storia dei Lager è stata
scritta quasi esclusivamente da chi non ne ha scandagliato il fondo”. Chi
lo ha fatto non è tornato, o la sofferenza ha paralizzato la sua capacità di
osservazione. I migliori storici dei Lager sono dunque emersi fra i pochissimi
che hanno avuto l'abilità e la fortuna di raggiungere un osservatorio
privilegiato, e tra questi in particolare i prigionieri politici, i più
adatti e capaci di valutare e di interpretare i fatti a cui assistevano.
La memoria degli eventi accaduti sta diventando una memoria
“stilizzata”, cioè semplificata e rarefatta dal tempo trascorso. Ormai i
testimoni diretti sono rimasti in pochi e gli stessi reduci tendono a ridurre
tutto a cerimonie commemorative fatte di retorica e belle parole. Ma solo
mantenendo viva la memoria si può evitare che quelle violenze ritornino.
CAP. I La memoria dell'offesa
"La memoria umana è uno
strumento meraviglioso ma fallace". Con quest'affermazione
l'autore apre la parte relativa alle responsabilità del terribile
evento-Auschwitz. L'offesa subita da lui e da molte migliaia di uomini è
insanabile, ma ciò non vuol dire che i responsabili comprendano la gravità
delle loro azioni. Le "scuse"
più frequenti, seppure espresse con formulazioni diverse, sono più o meno
le stesse: l'ho fatto perché sono stato costretto o comandato, o per
l'educazione impartitami, o per l'ambiente in cui sono cresciuto. Si tratta non
solo di menzogne, ma di un autoinganno che consente al colpevole di lavarsi dei
propri crimini. A favorire tale verità
di comodo interviene poi anche il tempo, perché più si allontanano gli
eventi, più risulta semplice negare il passato. La pressione che uno stato
totalitario può esercitare sull'individuo è paurosa. Le sue armi sono
sostanzialmente tre: "la propaganda, la censura opposta al pluralismo
delle informazioni, il terrore". Tutto ciò non può comunque giustificare e
ancor meno cancellare le colpe commesse: è infatti palese in chi si giustifica l’esagerazione e quindi la manipolazione
(volontaria o inconscia) del ricordo.
Levi cita le dichiarazioni
di Eichmann
al processo di Gerusalemme, e l’autobiografia di Rudolf Höss (il penultimo comandante di Auschwitz, l'inventore
delle camere ad acido cianidrico). Nelle affermazioni di questi uomini dalle
gravissime responsabilità, è palese l'esagerazione, ed ancor più la manomissione
del ricordo. Entrambi erano nati ed erano stati educati molto prima che il
Reich diventasse veramente «totalitario», e la loro adesione era stata una
scelta, dettata più da opportunismo che da entusiasmo. La rielaborazione del
loro passato è stata opera posteriore: così forti di fronte al dolore altrui,
quando il destino li ha messi davanti ai giudici, davanti alla morte che hanno
meritato, si sono costruiti un passato di comodo ed hanno finito per credervi.
Allo stesso tempo l’autore
riconosce anche in chi ha subito ingiustizie e offese la tendenza a
sorvolare sugli episodi più dolorosi, puntando l’attenzione su tregue,
intermezzi insoliti o momenti di respiro, certamente non col bisogno di
discolparsi: a scopo di difesa, la
realtà può essere distorta non solo col ricordo, ma nell’atto stesso in cui
si verifica, rifiutando una verità
insopportabile e costruendosene un’altra.
CAP II La zona grigia
Per comprendere è spesso
necessario semplificare. Oggi chi legge la storia dei Lager sente il bisogno di
dividere nettamente il male dal bene: qui i giusti, là i reprobi. Ma quella realtà
non è riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori. "L’ingresso
in lager era un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si
sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme
ad alcun modello, il nemico era intorno
ma anche dentro, il noi perdeva i suoi confini, i contendenti non erano
due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli,
una fra ciascuno e ciascuno." Il nuovo arrivato doveva essere
demolito subito, affinché non diventasse un esempio. Su questo punto le S.S. basavano
tutto il sinistro rituale, diverso
da Lager a Lager, ma unico nella sostanza, che accompagnava l'ingresso; i calci
e i pugni subito, spesso sul viso; l'orgia di ordini urlati con collera vera o
simulata; la denudazione totale; la rasatura dei capelli; la vestizione con
stracci. Tuttavia, al rituale
d'ingresso, ed al crollo morale che esso favoriva, contribuivano più o meno
consapevolmente anche le altre componenti del mondo concentrazionario: i
prigionieri semplici ed i privilegiati. C’erano gli “anziani” (bastava essere nel Lager due o tre mesi per essere
anziano) : il «nuovo» ("Zugang") veniva assurdamente invidiato , veniva deriso e sottoposto a
scherzi crudeli. Ma c’era soprattutto il prigioniero-funzionario,
quello che invece di prenderti per mano, tranquillizzarti, insegnarti la
strada, ti si avventa addosso urlando, e ti percuote; ti vuole domare, vuole
spegnere in te la dignità che lui ha perduta; ma se tenti una reazione, per una
legge non scritta ma ferrea, il
"zurückschlagen", il rispondere coi colpi ai colpi, è una
trasgressione intollerabile: altri funzionari accorrono a difesa
dell'ordine minacciato, e il “nuovo” colpevole viene percosso con rabbia e
metodo finché è domato o morto. Il privilegio, per definizione, difende e
protegge il privilegio. (“Un partigiano, scaraventato in un Lager di lavoro,
era stato malmenato durante la distribuzione della zuppa, ed aveva osato dare
uno spintone al funzionario-distributore: accorsero i colleghi di questo, e il
reo venne affogato immergendogli la
testa nel mastello della zuppa stessa.”)
L'ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze
umane, è un fenomeno immancabile. Dove esiste un potere esercitato da pochi, o
da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera. All’interno del
lager i prigionieri, costretti in condizioni limite, inevitabilmente sono
portati a sottostare alla logica del luogo in cui si trovano, dove per
sopravvivere è necessario scendere a compromessi anche con la propria umanità: la "zona grigia" è la classe
"ibrida" dei prigionieri-funzionari, un'area indefinibile, che
insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Tra questi
erano i Kapò, coloro che occupavano
posizioni di comando: i capi delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli
scritturali, i prigionieri che svolgevano attività presso gli uffici
amministrativi del campo, la Sezione Politica, il Servizio del Lavoro, le celle
di punizione. Alcuni fra questi hanno raccolto informazioni segrete e sono poi
diventati gli storici dei rispettivi Lager; alcuni con astuzia e coraggio hanno
potuto aiutare concretamente i loro compagni in molti modi. Erano però liberi
di commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di punizione
per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo alcuno.
Chi diventava Kapo? rei comuni tratti dalle carceri, prigionieri
politici fiaccati da cinque o dieci anni di sofferenze; più tardi, anche ebrei,
che speravano di sfuggire alla «soluzione finale». Ma molti, aspiravano al
potere spontaneamente, come i sadici
; lo chiedevano i frustrati, ed
anche questo è un aspetto che riproduce
nel microcosmo del Lager il macrocosmo della società totalitaria: in entrambi,
al di fuori della capacità e del merito, viene concesso generosamente il potere
a chi sia disposto a tributare ossequio all'autorità gerarchica, conseguendo in
questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile. Lo
cercavano, infine, i molti fra gli oppressi
che subivano il contagio degli oppressori e tendevano inconsciamente ad
identificarsi con loro.
Un caso-limite di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos di Auschwitz e degli
altri Lager di sterminio. Qui si esita a parlare di privilegio: chi ne faceva
parte era privilegiato solo in quanto (ma a quale costo!) per qualche mese
mangiava a sufficienza, non certo perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione , «Squadra
Speciale», veniva indicato dalle S.S. il gruppo di prigionieri a cui era
affidata la gestione dei crematori. Si doveva ancora una volta dimostrare
che gli ebrei, "sotto-razza", si piegano ad ogni umiliazione, perfino
a distruggere se stessi.
CAP. III La vergogna
"Noi sopravvissuti
siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per la loro
prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo". Il sentimento della vergogna riguarda tutti coloro che
non sono stati "sommersi", ma che una volta riconquistata la libertà,
non hanno provato gioia ma angoscia e vergogna per essersi "salvati",
fino al punto da essere spesso indotti al suicidio
(come lo stesso Levi poco dopo la pubblicazione di questo saggio). Il pensiero
del suicidio non interveniva durante la
prigionia per tre motivi: la condizione bestiale che non faceva ragionare, il
continuo lavoro che non lasciava tempo e le sofferenze della reclusione viste
già come una punizione sufficiente . Invece dopo la liberazione riaffiorava la vergogna, l'inevitabile senso
di colpa per non aver fatto nulla, o non abbastanza, contro il sistema del
Lager, o per soccorrere i compagni più deboli, per essere stati egoisti, e solo
grazie a questo essersi appunto salvati. I «salvati» del Lager non erano i migliori, i “Graziati”, i latori di
un messaggio, ma esattamente il contrario: sopravvivevano di preferenza i
peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della «zona
grigia», le spie. Chi tra i salvati si sentiva innocente, era comunque
intruppato fra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una
giustificazione, davanti a se stesso e agli altri. “Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti
tutti.” “E c'è un'altra vergogna più
vasta, la vergogna del mondo”. C'è chi davanti alla colpa altrui, o
alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato:
così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani. Ma chi
è stato nei Lager non ha potuto non vedere; “i
giusti fra loro hanno provato rimorso,vergogna, dolore, per la colpa che altri
e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché
sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in
loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe
dimostrato che l'uomo, il genere umano, noi
insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore;
e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza
fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.”
CAP. IV Comunicare
Secondo una teoria, l'«incomunicabilità» sarebbe un aspetto della condizione umana, in
particolare nel modo di vivere della società industriale. Niente di più falso e
pericoloso, secondo Levi: comunicare si
può e si deve, è un modo utile e facile di contribuire alla pace altrui e propria.
“Rifiutare di comunicare è una colpa; per
la comunicazione, ed in specie per quella sua forma altamente evoluta e nobile
che è il linguaggio, siamo biologicamente e socialmente predisposti”. Nel
Lager anche sotto l'aspetto della comunicazione, l'esperienza dei reduci, in particolare
italiani, jugoslavi e greci, è stata drammatica: gli ordini venivano dati prima
con calma, poi ripetuti in tono rabbioso, infine urlati e accompagnati da calci
e pugni "come si farebbe a un
sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al
contenuto."
A Mauthausen il nerbo di gomma si chiamava «der
Dolmetscher», l'interprete.
Ai giovani nazisti era stato martellato in testa che esisteva al mondo una
sola civiltà, quella tedesca. Perciò, chi non capiva né parlava il tedesco era
un barbaro; se si ostinava a cercare di esprimersi nella sua “non-lingua”,
bisognava farlo tacere a botte e rimetterlo al suo posto, a tirare, portare e
spingere, poiché non era un "Mensch", un essere umano.
I primi giorni di prigionia non
possono essere che ricordati come "un
film sfuocato e frenetico, pieno di fracasso e di furia e privo di significato:
un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un continuo
assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana non
affiorava". Nel Lager senza informazione non si vive . Senza
comunicare non si può sopravvivere. Chi non capisce il tedesco, intendendo con
tedesco quella sorta di lingua parallela propria dei lager e solo vagamente
somigliante a quello originario, rischia di "annegare nel mare tempestoso del non-capire". Ed il non-parlare ha effetti devastanti
sull'individuo, perché "insieme alla lingua ti si secca il pensiero" e si realizza la crudele volontà di
rendere l'uomo una bestia. C’era un tentativo di comunicazione anche con il
mondo esterno al lager, disperatamente cercato, che dava a molti una sorta di
speranza; si cercavano notizie dai prigionieri nuovi, si leggevano brandelli di
vecchi giornali trovati casualmente e, sebbene fosse vietata la corrispondenza,
venne da alcuni (tra i quali lo stesso Levi, che riconosce di dovere anche a
questo la sua sopravvivenza) trovato il modo per comunicare con i familiari.
CAP. V Violenza inutile
"Il titolo di
questo capitolo può apparire provocatorio o addirittura offensivo: esiste una violenza utile? Purtroppo sì.
La morte, anche non provocata, anche la più clemente, è una violenza, ma è
tristemente utile: un mondo di immortali non sarebbe concepibile né vivibile.
Anche l’assassinio ha uno scopo: chi uccide sa perché lo fa." Non
così la violenza disumana e ridondante del Lager. La sequenza di umiliazioni e
offese gratuite inizia già dal metodo di deportazione: enormi carri merci,
tuttavia non abbastanza grandi per il numero di persone stipate in essi per
numerosi giorni senza cibo, acqua o una latrina. Il prigioniero, una volta
entrato nelle fredde stanze del Lager, veniva denudato, privato delle scarpe e di
tutti gli oggetti personali, subiva il
taglio dei capelli e di tutti i peli. Al di là della necessità di maggiore
pulizia, questa violenza risultava offensiva perchè collettiva e inutilmente ripetuta. Un uomo nudo e scalzo è umiliato
e inerme. La stessa impotenza era provocata, nei primi giorni di prigionia,
dalla mancanza di un cucchiaio, un dettaglio solo apparentemente marginale per un uomo che si nutriva ogni
giorno di una sola misera razione di zuppa.
La vita concentrazionaria ricalcava la versione militare tedesca con regole ferree
quanto insulse, come i 5 bottoni obbligatori alla divisa e la marcia cadenzata.
I prigionieri venivano usati come cavie umane per esperimenti scientificamente
inutili che venivano risparmiati agli animali perché troppo dolorosi. Vi è poi
l’invenzione auschwitziana del
tatuaggio, operazione, in sé, non tanto dolorosa, quanto umiliante : "Questo è un segno indelebile, di qui
non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al
bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome:
questo è il vostro nuovo nome." La violenza del tatuaggio era
gratuita, fine a se stessa, pura offesa. Era anche un ritorno barbarico: il
tatuaggio, infatti, è vietato dalla legge mosaica. Violenza inutile era poi il
lavoro non retribuito ed inflitto come una tortura e che poteva portare alla
morte. Non bisogna poi dimenticare quello che fu l'esempio estremo di una
violenza ad un tempo stupida e simbolica: l'empio uso del corpo umano, gli
esperimenti medici. E tale crudeltà si estendeva anche al cadavere, alle
spoglie umane dopo la morte.
CAP. VI L'intellettuale ad Auschwitz
In questo capitolo l'autore analizza l'esperienza dell'uomo colto alle
prese con la realtà concentrazionaria. A tal proposito si rifà esplicitamente
all'opera di un filosofo ebreo morto suicida: Hans Mayer, alias Jean Améry (Un
intellettuale ad Auschwitz). Améry fu prigioniero in diverse prigioni naziste,
ma le sue osservazioni si limitano ad Auschwitz: "I confini dello spirito,
il non-immaginabile erano là."- Essere un intellettuale era in quel luogo
di morte un vantaggio o uno svantaggio?-, si domanda Levi. Sul lavoro, che era
prevalentemente manuale, in generale l'uomo colto stava
in Lager molto peggio dell'incolto. Gli mancavano la forza fisica e
la familiarità con gli attrezzi e l'allenamento, oltretutto, era tormentato più
pesantemente da un acuto senso di umiliazione. Anche la vita in baracca era più
penosa, poiché era una guerra continua di tutti contro tutti: i colpi dei
tedeschi potevano essere passivamente accettati, ma quelli di un compagno, cui
raramente l'uomo civile sapeva reagire, erano inaspettati e inaccettabili.
Anche Améry, come Levi, afferma poi di aver sofferto per la mutilazione del
linguaggio e ne ha sofferto ancora di più perché era di lingua tedesca, perché
era un filologo amante della sua lingua. La cultura non poteva dunque servire
che in qualche rara occasione (come per esempio nel caso del nostro autore, che
fu salvato, oltre che dal caso, anche dal suo mestiere di chimico);
ciononostante, in quelle poche situazioni la cultura poteva dare un forte
aiuto, certo non dal punto di vista prettamente fisico, ma di sicuro
moralmente: "Mi permettevano –i
ricordi- di ristabilire un legame con il passato, salvandolo dall’oblio e
fortificando la mia identità. Mi convincevano che la mia mente, benché stretta
dalle necessità quotidiane, non aveva cessato di funzionare.[...]. mi
concedevano una vacanza effimera ma non ebete, anzi liberatoria e
differenziale: un modo, insomma, di ritrovare me stesso."
CAP. VII Stereotipi
Sono da sfatare gli stereotipi di “prigionia-
libertà” e “oppressione- ribellione”.
Nei campi non c’erano persone che si sentissero lese in un diritto fondamentale
come la libertà e quindi fossero automaticamente pronte ad organizzarsi per
ribellarsi ed evadere. Erano persone umiliate, deboli, annullate, senza un
retroterra nel quale rifugiarsi, senza più alcun contatto col mondo esterno. La
fuga era punita immancabilmente non solo con la morte ma con torture atroci per
i rei e per i compagni anche se estranei al fatto. Inoltre la storia dimostra
che le ribellioni vittoriose hanno avuto sempre dei capi che possiedono forza
morale e fisica, nessuno schiavo ha sconfitto il padrone; nei Lager la ribellione era impossibile, e alcune
comunque vi furono. Altro stereotipo: l’idea di “patria”. Gli ebrei non fuggirono prima della deportazione in
massa, non abbandonarono le loro case, la loro città, la loro vita di sempre,
perché quella era la loro “patria”: era per loro un legame molto più forte in
quei tempi, probabilmente, soprattutto in Germania, di quanto non lo sia ora,
ed erano disposti a tutto pur di rimanere nella propria patria; certo non
prevedevano cosa sarebbe successo, tutti avevano sottovalutato la gravità dell’antisemitismo
nazista. Anche oggi gli allarmi ecologici, per esempio, non bastano a far
cambiare abitudini di vita alla gente, e ciò dovrebbe farci capire che vivere i fenomeni dal di dentro è
diverso dall’esserne spettatori esterni una volta che tutto è passato da tempo.
CAP. VIII Lettere di tedeschi
L'ultimo capitolo è riservato dall'autore ad alcune lettere da lui
ricevute in seguito alla traduzione tedesca di Se questo è un uomo. Racconta
la sua iniziale diffidenza nella proposta di un’ edizione rivolta ai
responsabili delle sue sofferenze, per paura che la sua opera venisse cambiata
o ridotta, timore svanito dopo uno scambio epistolare con l’editore. Prosegue
poi liquidando la lettera di due coniugi di Amburgo che
giudica "nazisti non fanatici ma opportunisti, pentitisi quando era
opportuno pentirsi, stupidi quanto basta per farmi credere alla loro versione
semplificata della storia moderna", infine con alcune altre lettere di
giovani che hanno invece sollevato domande e questioni in modo più mirato e
meditato e di Hety S. di Wiesbaden che molto lo aveva colpito con l’espressione
di una giovane donna tedesca che aveva vissuto in Germania non consenziente
all’ideologia ed ai crimini nazisti.
CONCLUSIONI
Il mondo è profondamente mutato, l'Europa non è più il centro del pianeta, gli
imperi coloniali hanno ceduto alla pressione dei popoli d'Asia e d'Africa
assetati d'indipendenza, la Germania è diventata «rispettabile» e di fatto
detiene i destini dell'Europa. Parlare
ai giovani dei lager nazisti è sempre più difficile; essi sono assillati
dai problemi d'oggi, diversi, urgenti: la minaccia nucleare, la disoccupazione,
l'esaurimento delle risorse, l'esplosione demografica, le tecnologie che si
rinnovano freneticamente ed a cui occorre adattarsi. Si affaccia all'età adulta
una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze; disposta invece
ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull'onda convulsa
delle mode culturali, pilotate o selvagge. Per i reduci è un dovere continuare
a parlare, ma lo percepiscono insieme come un rischio: il rischio di apparire
anacronistici, di non essere ascoltati. “Dobbiamo
essere ascoltati.
Siamo stati collettivamente
testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perché
inaspettato, non previsto da nessuno.E' avvenuto contro ogni previsione. E' avvenuto,
quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può
accadere, e dappertutto. La violenza, «utile» o «inutile», è sotto i nostri
occhi: serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato.(...)
Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la
legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo”.
Pochi paesi possono essere immuni da una futura marea di violenza, generata
da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo
religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi affinare i nostri
sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono
«belle parole» non sostenute da buone ragioni.
Agli stereotipi passati in rassegna nel settimo capitolo bisogna aggiungerne
uno. I giovani chiedono, tanto più spesso e tanto più insistentemente quanto
più quel tempo si allontana, chi erano, come erano fatti gli «aguzzini» dei
Lager. Il termine fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti
da un vizio d'origine. Invece erano esseri umani medi, mediamente intelligenti,
mediamente malvagi: “salvo eccezioni, non erano mostri, avevano
il nostro viso, ma erano stati educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi e diligenti: alcuni
fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti, o paurosi di
punizioni, o desiderosi di fare carriera, o troppo obbedienti. Tutti avevano subito
la terrificante diseducazione fornita ed imposta dalla scuola quale era stata
voluta da Hitler e dai suoi collaboratori.” Persone “normali” divenute
“mostri” solo perché obbedienti ad un’educazione sbagliata, a regole imposte a
cui non hanno saputo reagire criticamente. “Ed
è altrettanto chiaro che dietro la loro responsabilità sta quella della grande
maggioranza dei tedeschi, che hanno accettato all'inizio, per pigrizia mentale,
per calcolo miope, per stupidità, per orgoglio nazionale, le «belle parole» del
caporale Hitler, lo hanno seguito finché la fortuna e la mancanza di scrupoli
lo hanno favorito, sono stati travolti dalla sua rovina, funestati da lutti,
miseria e rimorsi, e riabilitati pochi anni dopo per uno spregiudicato gioco
politico”.