di Tina
Borgogni Incoccia
Dedicato alla
madre Anna Picchi, Il seme del
piangere è un canzoniere che
comprende poesie scritte da Giorgio Caproni tra il 1950 e il 1958 e rappresenta
un momento cronologicamente centrale nella sua attività poetica, come deduciamo
dalla raccolta quasi completa dei suoi versi, da lui curata e arricchita di riferimenti
biografici. Le prime raccolte di versi di Giorgio Caproni risalgono al decennio
1932-1942: Come una allegoria, Ballo a Fontanigorda, Finzioni, Cronistoria. Si tratta di versi brevi:
settenari, ottonari rimati irregolarmente, versi aerei e leggeri, nitidi e
freschi, che sanno di mare, di sole, di vento, di tepore primaverile.
Questo odore marino
[…]
che mi rammenta tanto
i tuoi capelli, al primo, chiarieggiato mattino.
negli occhi ho il sole fresco
del primo mattino. […]
Donna che apre
riviere
[…]
L’ aria
delle mattine
bianche è la
tua aria
di sale e
sono vele
al vento,
sono bandiere […]
Sono donne che sanno
[…]
senti sulla tua pelle
fresco aprirsi di vele
e alle labbra d’arselle
deliziose querele […]
Caproni
sottolinea l’andamento fusiforme della sua struttura metrica, cioè
il passaggio dai versi brevi delle prime composizioni (1932-1942) agli
endecasillabi più ampi e distesi dei sonetti e delle ballate composti nel
successivo decennio (1943-1953) e in seguito, il ritorno ai versi brevi e
addirittura alla forma estremamente concentrata, quasi afasica delle poesie
dell’ultimo periodo.
Le motivazioni
del ritorno alla forma poetica della tradizione letteraria sono vane. Egli dice
che negli anni bui e disperati della guerra, con la sensazione desolante del
crollo di tutto un mondo di valori, sentiva il bisogno di una rifondazione di
punti di riferimento che si manifestava anche come esigenza di una rifondazione
poetica, di un bisogno di schema chiuso, di tensione metrica, di ordine, quasi
per reazione ad un mondo che andava sfasciandosi. Si trattava anche di una
reazione al frammentismo lirico che aveva caratterizzato la corrente poetica
tra le due guerre, l’ermetismo, che ormai
andava esaurendosi. In realtà Caproni non era mai stato un poeta ermetico, così
bisognoso come era di riferimenti concreti. Forse in Cronistoria troviamo qualche espressione più
oscura, più allusiva:
I lamenti
II mare brucia le maschere,
le incendia il fuoco del sale.
Uomini pieni di maschere
avvampano sul litorale. […]
Dopo la
tremenda prova della guerra c’era una grande esigenza di chiarezza ed anche il
bisogno di orientarsi verso il discorso, dopo tanta insistenza sulla parola
isolata, di passare cioè dalla lirica pura al racconto, dalla solitudine alla
vita collettiva: una nostalgia del narrare che porterà Caproni alla forma del
poemetto narrativo, nella poesia e ad una serie di racconti, nella prosa. La
sua riedizione del sonetto non si esprimeva in un canto facile e disteso. Si
tratta di un sonetto che il critico Mengaldo chiama riformato, pieno di
interiezioni, esclamazioni, interrogazioni, con l’uso di un linguaggio
dissonante, stridente, scarno e scabro, conforme a quella che egli chiamava la vena ligustica della sua poesia.
Le carrette del latte, ahi mentre il sole
sta per pungere i cani. Cosa insacca
la morte sopra i selci nel fragore
di bottiglie in sobbalzo? […]
Dopo la forzata
immobilità dovuta alla guerra, si nota anche la citazione frequente di vari
mezzi di trasporto: le biciclette, il treno, il tram, l’ascensore, la
funicolare. Questi ultimi due costituiscono anche il titolo di due poesie
riferite a Genova, la sua città dagli
amori in salita, la sua città di mare tutta scale, come egli teneramente la ricorda.
In queste poesie Caproni usa una grande varietà di registri, alla ricerca di
una lingua vicina al parlato, pur senza essere dialettale. Sono versi pieni di
insistenze foniche, di ripetizioni in misura quasi ossessiva. In Litaniail nome di Genova viene
ripetuto novanta volte.
Nella
celebrazione-rievocazione di Genova, la figura familiare di riferimento è
soprattutto quella del padre, come appare nel poemetto Il passaggio di Enea (1943-55). L’ispirazione gli viene
da un piccolo monumento di Genova, salvatosi dalla distruzione della guerra,
che rappresenta Enea con sulle spalle il padre Anchise e per mano il
figlioletto Ascanio. Caproni si sente come Enea, solo e disperato in esilio (si
era trasferito a Roma). Nei versi si sente i1 rimpianto di quando,
nell’infanzia, l’appoggio robusto del padre gli dava un tranquillo senso di
sicurezza:
I lamenti
Io come sono solo sulla terra
coi miei errori, i miei figli, l’infinito […]
Trenta anni
dopo, (1972) sentendosi a sua volta vecchio e stanco, scriverà una poesia per
il figlio ed è interessante osservarne la differente struttura metrica:
A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre
Diventa mio padre, portami
per la mano
dov’è diretto sicuro
il tuo passo d’Irlanda […]
Da notare l’abbandono della forma metrica del sonetto e la musicalità prodotta dalle
assonanze, le rime interne, le ripetizioni, le riprese rimiche tra la fine di
un verso e l’inizio del successivo, quasi eco che prolunga fonicamente il verso
precedente, arricchendolo di intensità semantica. Il richiamo alla musica è in
carattere con Caproni che si era avviato alla carriera di violinista e aveva
anche studiato composizione musicale, consolidando il suo senso del ritmo.
Riferimenti musicali frequenti si trovano anche nei titoli delle sue poesie: Arietta, Larghetto,Andantino, Cantabile. Una delle ultime raccolte poetiche, Il conte di Kevenhuller (1984-85) ha la conformazione di un
libretto d’opera.
il tuo passo d’Irlanda […]
[…]
udendo le sirene sie più forte,
pon giù il seme del piangere ed ascolta […]
Dopo la morte della madre ha
inizio la fase poetica del ritorno, della nostalgia, tesa a ripercorrere le
strade della propria vita, prima quelle di Genova, città dei primi amori e dei
primi grandi dolori, quindi quelle dell’altra città, Livorno che appartiene a
un passato ancora più lontano e irrevocabile, in cui egli cerca la sua identità
e le sue
radici. Gia nelle Stanze, di ambiente genovese, il tunnel da
cui emerge la funicolare, chiamata volta a volta arca, barca, urna, tomba, e che segue un percorso reale e
simbolico al tempo stesso, con le sue soste che evocano le tappe
dell’esistenza, da notte a notte, può sembrare una metafora del ventre materno. E ancora a
Genova nella poesia L’ascensore, incontriamo la madre sul belvedere
di Castelletto:
[…]
dove si sta in vestaglia, chissà che fra la ragazzaglia
aizzata (fra le leggiadre giovani in libera uscita
con cipria e odor di vita
viva) non riconosca sotto un fanale mia madre […]
L’immagine di
se stesso e della madre fidanzati, in cui probabilmente vengono strette in una
sola figura la madre e la giovane fidanzata perduta prestissimo, si ritroverà
anche nell’ultima parte del canzoniere livornese, dove si attua un viaggio a
ritroso nel tempo, alla ricerca della propria esistenza fisica e letteraria.
Sono
un genovese di Livorno, usava dire Caproni, perché egli era nato a
Livorno e vi aveva vissuto i primi dieci anni della sua vita. Anche per trovare lo strumento linguistico adatto a questa
rievocazione, egli si ispira alle prime forme poetiche della nostra lingua
materna; usa infatti come epigrafe alcuni versi di Dante che danno anche il
titolo al poemetto e utilizza per l’inizio, quasi accordo musicale,
l’intonazione metrica della ballata dell’esilio di Cavalcanti, (non a caso
un’antologia degli stilnovisti era stato il suo primo incontro con la poesia)
perché anch’egli si sente come un esule:
[…]
perch’io che nella notte abito solo,
anch’io di notte, strusciando un cerino
sul muro, accendo cauto una candela
bianca nella mia mente-apro una vela
timida nella tenebra […]
Dopo i versi de Il passaggio di Enea si sente che il
poeta ha personalmente realizzato anche il passaggio ad una sicurezza
espressiva, dovuta ormai alla piena padronanza dei suoi mezzi.
Si ritrova il
motivo delle vele, del vento, della salsedine, delle ragazze
che lasciano dietro di se una lieve scia di profumo e la carica sensuale e
fresca della sua prima poesia confluisce in questo momento di splendida
maturità creativa per celebrare la figura femminile che avanza all’alba lungo
una vecchia strada di Livorno, circonfusa di luce stilnovistica.
Tina
Borgogni Incoccia
Giorgio Caproni Poesie,
Garzanti, 1989
21 luglio 2001
La Repubblica Letteraria Italiana. Letteratura e Lingua
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