mercoledì 4 novembre 2009

LEVI STRAUSS

Il 31 ottobre a Parigi è morto il grande antropologo CLAUDE LEVI STRAUSS, nato a Bruxelles nel 1908, uno dei più grandi personaggi della cultura del Novecento.

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http://www.conoscenza.rai.it/site/it-IT/?ContentID=338&Guid=df9f7629be3e42f1b5aa6f25de2c6682

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L’accademico transalpino aveva consacrato la sua vita allo studio dei popoli "primitivi"






"Il pensiero selvaggio non è per noi il pensiero dei selvaggi, né quello di un'umanità primitiva e arcaica, bensì il pensiero allo stato selvaggio distinto dal pensiero educato e coltivato"
DAL SAGGIO "IL PENSIERO SELVAGGIO"

Per Lévi-Strauss i cosiddetti selvaggi sono più vicini a noi di quanto non si creda. Nel segno del distacco dall'etnologia tradizionale, queste ricerche scelgono come tema un attributo universale dello spirito umano: il pensiero allo stato selvaggio presente in tutti gli uomini, contemporanei e antichi, vicini e lontani. Il grande antropologo si avvicina ai miti, alle credenze e agli altri fatti di cultura accantonando ogni idea di esotismo e portando alla luce un pensiero dai tratti sorprendentemente moderni, in cui l'analogia e la forza espressiva dei simboli giocano un ruolo essenziale. Pubblicato alla metà degli anni cinquanta, il saggio IL PENSIERO SELVAGGIO è oggi considerato un classico dell'etnologia e ha esercitato un'influenza decisiva su tutte le discipline che formano il campo delle scienze sociali.


RIPORTIAMO DAL CORRIERE DELLA SERA DEL4 NOV 2009

Francia: è morto Claude Levi-Strauss

Il grande antropologo ed etnologo francese è scomparso a Parigi all'età di 100 anni


Claude Levi-Strauss (Afp)
Claude Levi-Strauss (Afp)
PARIGI (FRANCIA) - Lutto nel mondo della cultura francese. Il grande antropologo ed etnologo Claude Levi-Strauss è morto nella notte fra sabato e domenica a Parigi all'età di 100 anni. La notizia però è stata diffusa solo oggi dall'«Ecole des hautes etudes en sciences sociales».
CHI ERA - Divenuto noto al grande pubblico per la sua opera «Tristi Tropici», l’accademico francese aveva consacrato la sua vita allo studio dei popoli "primitivi", ai simboli e alle strutture di gruppo. Sul piano teorico era considerato in antropologia il massimo teorico dello strutturalismo, corrente di pensiero che sostiene che tutti gli aspetti culturali di una società siano riconducibili a strutture fondamentali.
LA VITA - Nato a Bruxelles, ma da genitori francesi, nel 1908, Levi-Strauss avrebbe compiuto 101 anni il 28 novembre. Levi-Strauss studia legge e filosofia alla Sorbona di Parigi non concludendo gli studi in legge, ma laureandosi in filosofia nel 1931. Inizia ad insegnare in un liceo di provincia condividendo questa sua esperienza con il grande filosofo francese Maurice Merleau-Ponty e con la scrittrice Simone de Beauvoir. Le sue posizioni filosofiche sono molto critiche nei confronti delle tendenze idealiste e spiritualistiche della filosofia francese del periodo fra le due guerre, soprattutto perchè egli riconosce in se stesso un'esigenza di concretezza che lo porta verso direzioni completamente nuove. Scopre presto nelle scienze umane, in particolare nella sociologia e nell'etnologia, la possibilità di costruire un discorso più concreto e innovatore sull'uomo. Decisivo l'incontro con Paul Rivet, che conosce in occasione dell'esposizione di Jacques Soustelle al Museo Etnografico, e con Marcel Mauss del quale fu allievo. Rimane affascinato dal forte senso del concreto che scaturisce dall'insegnamento di Mauss e dal metodo che egli utilizza per spiegare e analizzare i riti e i miti primitivi. Nel 1935 viene offerto a Lèvi-Strauss di andare ad insegnare sociologia a San Paolo in Brasile, dove una missione culturale francese aveva avuto l'incarico di fondare l'università. Questa sarà l'occasione per conoscere un mondo completamente diverso da quello europeo ma soprattutto per entrare in contatto con le popolazioni indie del Brasile che diventeranno l'oggetto delle sue ricerche sul campo.
Tornato in Francia nel 1939 viene mobilitato allo scoppio della seconda guerra mondiale ma nel 1941, subito dopo l'armistizio, a causa delle persecuzioni contro gli ebrei, è costretto a fuggire e riesce ad imbarcarsi per gli Stati Uniti. A New York conosce e inizia a frequentare molti altri intellettuali emigrati e ad insegnare presso «La Nuova Scuola per le Ricerche Sociali». Insieme a Jacques Maritain, Henri Focillon e Roman Jakobson, è considerato uno dei fondatori dell'École Libre des Hautes Études, una specie di università-in-esilio per accademici francesi. Gli anni trascorsi a New York sono per Lèvi-Strauss molto importanti per la sua formazione. La sua relazione con il linguista Jakobson gli è d'aiuto per mettere a punto il suo metodo di indagine strutturalista. (Jakobson e Lèvi-Strauss sono infatti considerati le figure centrali dello strutturalismo). Lèvi-Strauss è anche considerato, insieme a Franz Boas, uno degli esponenti maggiori della antropologia americana. Insegna questa disciplina presso la Columbia University a New York e il suo lavoro gli fa ottenere un titolo che gli servirà per essere accettato con facilità negli Stati Uniti. Nel 1948 Lèvi-Strauss ritorna a Parigi e in quell'anno consegue il suo dottorato alla Sorbona con una tesi maggiore e una minore, come era tradizione in Francia, dal titolo «La famiglia e la vita sociale degli Indiani Nambikwara» (The Family and Social Life of the Nambikwara Indians) e le «Le strutture elementari della parentela» ( The Elementary Structures of Kinship).
«Le strutture elementari della parentela» viene pubblicato l'anno seguente e immediatamente considerato uno degli studi più importanti di antropologia sui rapporti di parentela fino a quel momento effettuati. Già Emile Durkein, aveva pubblicato un famoso studio, dal titolo «Forme elementari della vita religiosa», frutto di una analisi su come i popoli organizzano le loro famiglie esaminando le strutture logiche che vengono a formarsi nelle relazioni tra i vari componenti. Mentre, tra gli antropologi inglesi, Alfred Reginald Radcliffe-Brown sosteneva che la parentela era basata sulla discendenza da un comune antenato, Lèvi-Strauss sostiene che la parentela era basata sull'alleanza tra due famiglie che si viene a creare quando una donna proveniente da un gruppo sposa un uomo appartenente ad un altro gruppo. Tra gli anni 1940 e 1950 Lèvi-Strauss continua le sue pubblicazioni e ottiene sempre maggior successo. Al suo ritorno in Francia lavora come amministratore della CNRS, al Musèe de l'Homme e in seguito all'École Pratique des Hautes Études, alla sezione di «Religious Sciences», sezione precedentemente fondata da Marcel Mauss e rinominata «Comparativie Religion of Non-Literate Peoples». Nel 1955 pubblica «Tristi Tropici», essenzialmente un diario di viaggio nel quale annota le sue impressioni, frammiste a una serie di geniali considerazioni sul mondo primitivo amazzonico, che risalgono al periodo intorno al 1930 quando egli espatriò dalla Francia. Nel 1959 Lèvi-Strauss diventa titolare della cattedra di Antropologia sociale presso il Collège de France. Dopo qualche tempo pubblica «Structural Anthropology» che comprendeva una collezione dei suoi saggi con esempi e teorie strutturaliste. In quel periodo sviluppa un programma che comprende una serie di organizzazioni, come un Laboratory for Social Anthropology e un nuovo giornale, l'Homme, per poter pubblicare i risultati delle sue ricerche. Nel 1962 pubblica quello che per molti venne ritenuto il suo più importante lavoro, «Pensèe Sauvage». Nella prima parte del libro viene delineata la teoria della cultura della mente e nella seconda parte questo concetto si espande alla teoria del cambiamento sociale. Questa seconda parte del libro coinvolgerà Lèvi-Strauss in un acceso dibattito con Jean-Paul Sartre riguardo alla natura della libertà umana. Ormai diventato una celebrità, Lèvi-Strauss trascorre la seconda metà degli anni sessanta alla realizzazione di un grande progetto, i quattro volumi di studi dal titolo Mythologiques. In esso, Levi-Strauss analizza tutte le variazioni dei gruppi del Nord America e del Circolo Artico esaminando, con una metodologia tipicamente strutturalista, le relazioni di parentela tra i vari elementi.
03 novembre 2009

RIPORTIAMO DALLA STAMPA.IT
Ci sono molti motivi per rimettersi a leggere Lévi-Strauss, ma il principale forse è quello che riguarda la diversità: il contributo che essa fornisce al progresso umano è infatti essenziale nella globalizzazione, e stranamente è trascurato.
Gli scritti sulla razza (Razza e Storia nel 1952, Razza e Cultura nel 1971) sono preziosi per chiunque voglia capire l’attuale transizioDimensione caratterene e apprendere l’arte del pensare lungo.

Il progresso, dice Lévi-Strauss, non è qualcosa di continuo, necessario. Procede a balzi, per mutazioni e scarti, come la mossa del cavallo negli scacchi. Soprattutto non è appannaggio di genti privilegiate:
non esistono culture infantili, primitive, cui si contrappongono civiltà sofisticate. «Tutti i popoli sono adulti, anche quelli che non hanno tenuto il diario della loro infanzia e della loro adolescenza» (Razza e Storia).
La visione giornalistica fatica a comprenderlo: l’inviato arriva in terre inesplorate, e vede solo la coda d’una storia lunghissima che per mancanza di tempo non capisce. Il vizio s’è oggi esteso, rendendo giornalistica anche la politica estera: è significativo che Bush non sia ricorso - nei rapporti con Arabi, Asiatici, Russi - a esperti che queste culture le studiano continuativamente, senza mettere la propria al centro di tutto. Il giornalista in modo speciale deve pensare contro se stesso, perché le sue semplificazioni influenzano anormalmente le menti.

C’è una metafora con cui Einstein spiega la teoria della relatività, che Lévi-Strauss adotta spesso ma rovesciandola mirabilmente. È la metafora del treno in corsa. Per dimostrare che il movimento dei corpi nello spazio e nel tempo non è una verità assoluta, ma dipende dall’ottica dell’osservatore, Einstein racconta come il passeggero vedrà cose discordanti, a seconda che il treno parallelo guardato dal finestrino vada nella nostra direzione o in quella opposta. Se si sposta con noi, esso ci parrà immobile, molto più lungo del treno che va in senso contrario: solo quest’ultimo sembrerà muoversi. Tutt’altro accade nell’osservazione delle società, e nella suddivisione fra culture che si muovono e culture inerti. Solo quelle che camminano nella stessa direzione in cui camminiamo noi (essendo più visibili, condividendo costumi, valori) ci parranno in movimento. Le culture che corrono in senso opposto le vedremo appena: il treno «passa così rapido che ne conserviamo solo un’impressione confusa da cui persino i segni di velocità sono assenti». Sarà come immobile. «Non è più un treno, non significa più niente». Il viaggiatore al finestrino vede solo un segmento del mondo: «Noi appariremo l’uno all’altro come privi d’interesse, per il semplice motivo che non ci rassomigliamo». Lévi-Strauss evoca due figure - l’anziano, l’avversario politico - egualmente incapaci di vedere. Lontani dai centri di decisione, ambedue ritengono il mondo stagnante e vano anche quando non lo è (Razza e Cultura). Ambedue sono spesso incuriositi, meno ricchi di tempo, di spazio e di idee.

Studiare, scambiare informazioni, ascoltare: è uno dei rimedi, ed è il contrario dei conformismi che impregnano il pensiero sulle culture mondiali. La potenza di Lévi-Strauss è proprio qui: basta leggerlo, e lo scontro di civiltà che ha fatto la gloria di Samuel Huntington ingrigisce. Huntington passa, lui resta. Resta la sua idea fondamentale, secondo cui ogni progresso è una coalizione tra forze diverse che cercano una sintesi senza abbandonare la propria diversità. Se c’è una cosa aborrita dall’etnologo francese è il mondo unico, che cancella le differenze o soggiogandole con efferatezza coloniale, o ignorandole in nome di un antirazzismo falso perché disattento a forme di esclusione che penalizzano non solo le razze ma anche gli stili di vita. Il conformismo globale non è progresso: è «umanità ossificata, confusa in un genere di vita unico»; è entropia, energia che sfinisce. Il progresso non è nella difesa d’un particolarismo superiore ma in uno scambio col difforme che feconda il nostro pensiero trasformandolo. La divergenza non è scandalo: è la condizione perché la storia cessi di esser stazionaria, solitaria e diventi cumulativa, capace di combinazioni complesse. Ci sono epoche che Lévi-Strauss considera esemplari: il Neolitico, il Rinascimento, la Rivoluzione industriale. Edificando sulla differenziazione, esse avanzarono formidabilmente. Chi vede ovunque sovversivi s’adagia nell’inerzia storica.

Ogni coalizione con le diversità è minacciata da esiti paradossali. A forza di collaborare, le culture tendono alla consonanza, i particolarismi s’appannano, vivificano meno. L’omogeneità e il maggiore volume delle società accresceranno le diversificazioni interne, ma non subito né automaticamente.
La sfida consiste nel trovare un equilibrio fra integrazione e differenza, e nell’evitare il «pigro, comodo riposo» che garantisce «l’immagine della somiglianza migliorata»: la storia non è fatta di somiglianze crescenti; è «piena di avventure, rotture, scandali».
Quando le diversità non rifioriscono conviene cercarne di nuove, addirittura suscitarle, ridar spazio a minoranze, a avversari, anche a sistemi ideologici antagonisti.
«Barbaro è solo chi crede nella barbarie».
Se il progresso è sintesi fra culture occorre salvaguardare gli scarti, proteggendo quelle che l’antropologo chiama le micro-solidarietà, le società parziali; custodendo perfino le superstizioni. Uno dei più luminosi saggi è sul Babbo Natale Giustiziato, che narra l’intreccio sottile, involontario, tra cristiani e pagani. Ogni genitore o nonno, alla vigilia delle feste, ne scoprirà la delizia.

Lévi-Strauss è una mente veramente grande, e non solo per la visione cupa, dunque realista, che egli ha dell’occidente, delle sue crudeltà, delle sue megalomanie. È un grande perché, pur disperando, non cessa di pensare e credere. Tutta la vita l’ha spesa per dire che si può sempre scegliere un’altra via, che tutto poteva e può andare diversamente, solo che lo si voglia. La necessità è un muro, ma ha sue crepe. Il pianeta corre allo squasso, ma si può edificare un altro umanesimo, fondato non sull’uomo morale superiore ma sui diritti dell’essere vivente, sia esso uomo, pianta, specie animale. «I giochi non sono mai fatti. Possiamo ricominciare tutto. Quello che è stato fatto e mancato può esser rifatto», scrive in Tristi Tropici. Purché si ritrovi «l’indefinibile grandezza dei cominciamenti»: quella soglia in cui il nulla quasi non c’è più e già quasi iniziano l’essere, le parole per dirlo, l’azione per influenzarlo.
BARBARA SPINELLI – LA STAMPA.IT

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