lunedì 27 aprile 2015

ANTONIO GRAMSCI



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Antonio, il gobbetto dai capelli di leone…

(ripreso e rielaborato da”Da Antonio Gramsci a Gianni Rodari”  di- Antoni Arca)




Nato ad Ales (Cagliari) nel 1891 da famiglia piccolo-borghese. Di salute cagionevole fin dall'infanzia, vince una borsa di studio per l'Università di Torino, laureandosi in lettere e filosofia. Nel 1913 aderisce al Partito socialista del quale diventa, nel '17, segretario della sezione torinese. Nel 1921 fonda insieme a Bordiga il Partito comunista d'Italia.
Prima giornalista dell’Avanti! e poi direttore del quotidiano da lui fondato, L'Ordine nuovo, nel '22 è componente dell'Esecutivo dell'Internazionale comunista. Si sposa a Mosca; avrà due figli per i quali, dal carcere italiano, scriverà una serie di commoventi favole pubblicate con il titolo L'albero del riccio. Rientrato in Italia, è eletto deputato per il collegio Veneto e segretario generale del Partito comunista.
Nel 1926 viene arrestato dalla polizia fascista nonostante l'immunità parlamentare, il re e Mussolini sciolgono la Camera dei deputati, mettendo fuori legge i comunisti. Tutti i deputati comunisti sono processati e confinati, Gramsci è condannato a venti anni di reclusione e prima viene confinato nell'isola di Ustica e successivamente rinchiuso nel carcere di Civitavecchia e poi di Turi.
Non essendo adeguatamente curato è abbandonato al lento spegnimento fra sofferenze. Muore nel 1937, dopo 11 anni di prigione, senza aver mai rivisto i figlioletti. Oltre alle Lettere inviate ai familiari ed agli amici, negli anni della reclusione scrive 32 quaderni di studi filosofici e politici, definiti una delle opere più alte e acute del secolo; pubblicati da Einaudi, nel dopoguerra, sono noti universalmente come i Quaderni dal carcere, tradotti in tutte le lingue più importanti.



Antonio Gramsci (1891-1937) capiva la fondamentale importanza della scuola, ma ne criticava le gravi carenze. Sapeva, per averlo vissuto di per­sona, che qualunque ragazzino di un paese rurale partiva svantaggiato rispetto al meno do­tato dei ragazzini di città, e que­sto non per chissà quale deficit intellettivo, ma perché le opportunità e gli stimoli offer­ti dalla città erano (sono?) estremamente superiori ad analoghi sti­moli di un centro rurale.
Ma, in quegli anni, in assenza di internet e computer, di radio e te­levisione, di cinema e librerie lo Stato, invece di sopperire a que­sto stato di cose dotando i centri rurali almeno di biblioteche di pubblica lettura, di locali scolastici confortevoli, e, soprattutto, di un corpo insegnante più preparato e flessibile, lasciava che i centri ru­rali venissero abbandonati al buon senso degli amministratori locali: quindi scuole improvvisa­te in locali abbando­nati, talvolta in vere e proprie stal­le, insegnanti sprovvisti di titolo e, spesso, anche di reali com­petenze didattiche.
 Per essere il primo della classe a Gramsci, per tutte le elementari, bastò saper parlare l'italiano meglio dei compagni di scuola, anzi, saperlo parlare e basta, dato che tutti gli al­tri entravano alle elementari con il bagaglio idiomatico del solo sardo e l'italiano lo imparavano, a fatica, come una vera e propria lingua straniera.

Lui, Antonio, il gobbetto dai capelli di leone, aveva il padre continentale e quindi parti­va avvantaggiato: l'italiano lo impa­rava a casa. Più tardi, malgrado avesse supe­rato con tutti dieci la classe quin­ta elementare (non obbligatoria ma indispensabile per accedere al ginnasio), non potè continuare gli studi per motivi economici e di salute. Studiò da privatista, fu ammesso a frequentare gli ultimi anni del ginnasio e, dopo il liceo, grazie ai suoi meriti scolastici e alla sua grande capacità di stu­dio,  vinse una borsa di studio per giovani sardi biso­gnosi e potè studiare all'univer­sità di Torino. Gramsci studierà sempre e comunque, ma, in ogni segmento dei proprio percorso studentesco, sarà costretto a sperimentare 1'inadegua­tezza di un sistema scolastico che tende ad escludere e a soffocare piuttosto che a includere e a integrare.
 Gli è talmente chiaro questo percorso educativo che, malgrado sia un brillante studente universitario e, a detta di alcuni suoi professori, abbia la concreta possibilità di un futuro come docente universita­rio, Granisci abbandona l'universi­tà a un passo dalla laurea per dedicarsi interamente all'educazio­ne del popolo.

Gramsci decide di essere un educatore alter­nativo alla scuola ufficiale, così organizza gruppi di studio spontanei come farà anche ad Ustica tra i confinati. Inoltre esercita il proprio ruolo di educa­tore come conferenziere e giornalista corsivista. Attraver­so aneddoti e apologhi riesce a parlare a tutti i lettori di l'Avanti, La Città Futura, il Grido del po­polo, L'Ordine Nuovo, ed avrà schiere di imitatori.
La sua vocazione di educatore fino al 1924 non si rivolge particolarmente ai ragazzi, ma  poi nasce Delio, due anni dopo Giulia­no e, come accade a tutti quei ge­nitori che fino a quel momento non ci avevano mai badato, il mondo dell'infanzia irrompe nella sua vita e, drammaticamente; infatti non lo fa at­traverso un rapporto in presenza che si prolunga nel tempo, ma attra­verso la mediazione della scrittu­ra.

Infatti, essendo stato eletto al parla­mento del regno d'Italia nel 1924 e non avendo tradito la propria ideologia politica, nel 1926 Anto­nio Gramsci fu accusato di antifascismo, quindi ar­restato e un anno e mezzo più tar­di, quando il regime di Mussolini riuscì a mettere insieme un tribu­nale speciale costituito da giudici (militari) con scarso senso della giustizia, insieme al gruppo diri­gente del Partito Comunista d'Ita­lia e alcuni militanti che non ave­vano voluto o potuto scappare, Antonio Gramsci fu condannato a poco più di vent'anni di carcere. La relazione di vicinanza coi figli fu bruscamente interrotta; Giulia­no non potrà mai veder­lo di persona.  Per causa della carcerazione Gramsci è costretto a stare lonta­no dalla sua famiglia e dai suoi fi­gli e provare ad avere con loro un rapporto epistolare, attraverso la scrittura, appunto.

Dal carcere, come è noto, Gramsci scrive il suo involontario roman­zo epistolare che tanto successo, ancora oggi e in tutto il mondo, meritatamente gli vale: Le lettere da carcere.  Si tratta, appunto, di lette­re a famigliari. amici e conoscenti che Gramsci scrive nel corso di un­dici anni di prigionia (1926-1937); di fatto fino a pochi giorni prima della sua morte, avvenuta il 27 apri­le.

Le let­tere risentono di diversi condizio­namenti: è costretto a scriverle in fretta e nei giorni stabiliti (due o quattro volte al mese secondo le regole carcerarie e nel tempo de­ciso dalle guardie carcerarie, non più di qualche decina di minuti), e possono essere indirizzate a un solo corrispondente per volta. Grazie alla disponibilità della co­gnata Tania che è rimasta in Italia, Gramsci indirizza a lei le lettere chiedendole smi­starle verso i reali destinatari: la moglie Giulia, la fa­miglia a Ghilarza, gli amici.
Sempre egli deve fare i conti con la censura del direttore del carcere (obbligato a leggere tutta la corri­spondenza in entrata e in uscita).
Di fatto, fino al 1932, cioè per i primi cin­que anni di carcere, Gramsci non scrive mai direttamente ai figli, il colloquio con loro è continua­mente mediato attraverso la voce di sua moglie Giulia e le sue co­gnate Tania e Genia. Quest'ultima vive a Mosca insieme alla sorella e i loro genitori e si sente una mamma alla pari, nei confronti di Delio e Giuliano e rispetto a Giulia. Con l'ingresso nella scuola elemen­tare anche di Giuliano, Gramsci co­mincia a ricevere letterine diretta­mente dai figli, e deve scrivere loro in maniera diretta, con la sola mediazione della loro mamma che, adesso, si limita a tradurre dall'italiano al russo.

Le Lettere, come i Quaderni e tutti gli altri volumi attribuiti a Gramsci, furono raccolti e pubblicati dopo la sua morte e solo alla fine della secon­da guerra mondiale, dopo la caduta del fascismo e della monarchia e l'av­vio della fase costituente della Re­pubblica Italiana. La prima edizio­ne delle Lettere dal carcere è, in­fatti, del 1947, pubblicata per il decennale della morte di Antonio Gramsci. L'anno dopo, una parte di quelle lettere,  sapientemente smontate e rimontate, divennero L'albero del riccio, il primo libro per bambini  attribuito ad Antonio Gramsci e che, da allora, lo iscri­ve, a pieno titolo, tra i migliori scrittori italiani per l'infan­zia pur non avendo potuto rielaborare e completare lui stesso l’opera.




Da Antonio Gramsci a Gianni Rodari

 dalle lettere al telefono …Lungo il filo diretto della comunicazione tra adulti e ragazzi…


Era il 1948 quando il libro di Anto­nio Gramsci per bambini, “L’abero del riccio” usciva a Milano e, l'anno prima, un giovane maestro comunista abbandonava definitivamente il mestiere per en­trare come giornalista presso l’Uni­tà di Milano, quotidiano fondato da Antonio Gramsci, e dopo aver di­retto, dal 1945 al 1947, L'Ordine nuovo, il periodico di ispirazione gramsciana dei giovani comunisti di Varese.

Quel giovane si chiamava Gianni Rodari (1920-1980).Gianni Rodari, necessariamente, doveva aver letto le lettere di Gramsci. Quelle fiabe appena abbozzate nelle lette­re alla moglie e alla cognata, quegli aneddoti inviati ai figli, quelle brevi memorie personali , apparentemente senza una ragione chiara, invece di essere visti come un limite di scrit­tura, Rodari li reinventa e li trasfor­ma nella propria cifra stilistica. Quasi quotidianamente, prima su l'Unità, poi sull'inserto // Pionie­re, più avanti su Paese Sera, Gianni Rodari scriveva una veloce filastroc­ca o un breve racconto.
Egli afferma di scri­vere per una «città futura» in cui l'uto­pia possa divenire realtà. «Basta tra­sferirla dal mondo dell'intelligenza (alla quale Granisci prescrive giu­stamente il pessimismo metodico) a quello della volontà (la cui caratte­ristica principale, secondo lo stesso Granisci, dev'essere l'ottimismo)».

Favole al telefono esce in prima edizione presso Einaudi nel 1962.
Le favole telefonate sono settan­ta più una breve nota introduttiva, nella quale leggiamo che il narra­tore, un papà lontano per affari che ogni notte telefona una favo­la a sua figlia piccolina; «solo qualche volta, se aveva concluso buoni affari, si permetteva qual­che "unità" in più. Mi hanno det­to che quando il signor Bianchi chiamava Varese le signorine del centralino sospendevano tutte le telefonate per ascoltare le sue sto­rie. Sfido: alcune sono proprio belline».
 Le signorine centraliniste che si fermano ad ascoltare le fa­vole telefonate forse non ricordano i censori che, loro malgrado, diventavano i primi appassionati lettori delle lettere di Antonio Granisci?

Nella lettera alla mamma  del 27 giu­gno 1927 Antonio Gramsci conclude così:

“Vorrei che tu mi mandassi, sai che cosa? La predica di fra 'Antiogu a su populu de Masuddas.[…] Voglio comporre sullo stesso stile un poema dove farò entrare tutti gli illustri personaggi che ho conosciuto da bambino: tiu Remundu Gana con Ganosu e Ganolla, maistru Andriolu e tiu Millanu, tiu Micheli Bobboi, tiu Iscorza alluttu, Pippetto, Corroncu, SantuJacuzilighertariecc. ecc. Mi divertirò molto e poi reciterò il poema ai bambini, fra qualche anno.
 Penso che adesso il mondo si è incivilito e le scene che abbia­mo visto noi da bambini ora non si vedono più. Ti ricordi quella men­dicante di Mogoro che ci aveva promesso di venirci a prendere con due cavalli bianchi e e due cavalli neri per andare a scoprire il tesoro difeso dalla musca maghedda e che noi l'abbiamo attesa per mesi e mesi?
Adesso i bambini non credono più a que­ste storie e perciò è bene cantar­le; se ci trovassimo con Mario potremmo rifare una gara poeti­ca!”

Non sapremo mai se mamma Peppina avesse poi messo in prati­ca il consiglio di cantare le antiche fiabe, ma certamente lo ha fatto Gianni Rodari attraverso le sue mil­le filastrocche.


Leggendo molte favole di Rodari sentiamo qualcosa della voce e dello spirito di Gramsci, che rivive in un ambiente ed un linguaggio adattato ai bambini moderni.


 Chi è GIACOMO DI CRISTALLO  se non  Gramsci  con la sua prigionia resa tra­sparente attraverso le sue Lettere e i suoi Quaderni?

 Giacomo di Cristallo
Una volta, in una città lontana, venne al mondo un bambino trasparente. Attraverso le sue membra si poteva vedere come attraverso l’aria e l’acqua. Era di carne e d’ossa e pareva di vetro, e se cadeva non andava in pezzi, ma al più si faceva sulla fronte un bernoccolo trasparente.
Si vedeva il suo cuore battere, si vedevano i suoi pensieri guizzare come pesci colorati nella loro vasca.
Una volta, per isbaglio, il bambino disse una bugia, e subito la gente potè vedere come una palla di fuoco dietro la sua fronte: ridisse la verità e la palla di fuoco si dissolse. Per tutto il resto della sua vita non disse più bugie.
Un’altra volta un amico gli confidò un segreto e, subito tutti videro come una palla nera che rotolava senza pace nel suo petto, e il segreto non fu più tale.
Il bambino crebbe, diventò un giovanotto, poi un uomo, e ognuno poteva leggere nei suoi pensieri e indovinare le sue risposte, quando gli faceva una domanda, prima che aprisse bocca.
Egli si chiamava Giacomo, ma la gente lo chiamava “Giacomo di cristallo”, e gli voleva bene per la sua lealtà, e vicino a lui tutti diventavano gentili.
Purtroppo, in quel paese, salì al governo un feroce dittatore, e cominciò un periodo di prepotenze, di ingiustizie e di miseria per il popolo. Chi osava protestare spariva senza lasciar traccia. Chi si ribellava era fucilato. I poveri erano perseguitati, umiliati e offesi in cento modi.
La gente taceva e subiva, per timore delle conseguenze.
Ma Giacomo non poteva tacere. Anche se non apriva bocca, i suoi pensieri parlavano per lui: egli era trasparente e tutti leggevano dietro la sua fronte pensieri di sdegno e di condanna per le ingiustizie e le violenze del tiranno. Di nascosto, poi, la gente si ripeteva i pensieri di Giacomo e prendeva speranza.
Il tiranno fece arrestare Giacomo di cristallo e ordinò di gettarlo nella più buia prigione.
Ma allora successe una cosa straordinaria. I muri della cella in cui Giacomo era stato rinchiuso diventarono trasparenti, e dopo di loro anche i muri del carcere, e infine anche le mura esterne. La gente che passava accanto alla prigione vedeva Giacomo seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo, e continuava a leggere i suoi pensieri. Di notte la prigione spandeva intorno una gran luce e il tiranno nel suo palazzo faceva tirare tutte le tende per non vederla, ma non riusciva ugualmente a dormire. Giacomo di cristallo, anche in catene, era più forte di lui, perché la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile dell’uragano.

Lo spaventapasseri di Rodari è la storia, l’unica ambientata in Sardegna,  di Gonario un bambino che rimane tutto solo nel fango di un fosso come racconta Gramsci, che da bambino scoprì l'orrore di una mamma che teneva incatenato nel­la porcilaia suo figlio disabile e non potè dirlo a nessuno perché ì grandi non sanno capire {Lettera a Tania del 30 gennaio 1933).

RODARI
Lo spaventapasseri
Gonario era l’ultimo di sette fratelli. I suoi genitori non avevano soldi per mandarlo a scuola, perciò lo mandarono a lavorare in una grande fattoria agricola. Gonario doveva fare lo spaventapasseri, per tenere lontani gli uccelli dai campi. Ogni mattina gli davano un cartoccio di polvere da sparo e Gonario, per ore ed ore, faceva su e giù per i campi, e di tratto in tratto si fermava a dava fuoco a un pizzico di polvere. L’esplosione spaventava gli uccelli che fuggivano, temendo i cacciatori.
Una volta il fuoco si appiccò alla giacca di Gonario, e se il bambino non fosse stato svelto a tuffarsi in un fosso certamente sarebbe morto tra le fiamme. Il suo tuffo spaventò le rane, che fuggirono con clamore, e il loro clamore spaventò i grilli e le cicale, che smisero per un attimo di cantare.
Ma il più spaventato di tutti era lui, Gonario, e piangeva tutto solo in riva al fosso, bagnato come un brutto anatroccolo, piccolo, stracciato e affamato. Piangeva così disperatamente che i passeri si fermarono su un albero a guardarlo, e pigolavano di compassione per consolarlo. Ma i passeri non possono consolare uno spaventapasseri.
Questa storia è accaduta in Sardegna.


 GRAMSCI  -(la storia della volpe e puledrino e la storia della volpe e del finto fucile)
Carissimo Delio,
ho saputo che sei stato al mare e che hai visto delle cose bellissime. Vorrei che tu mi scrivessi una lettera per descrivermi queste bellezze. E poi, hai conosciuto qualche essere vivente? Vicino al mare c’è tutto un brulichio di esseri: granchiolini, meduse, stelle marine ecc. Molto tempo fa ti avevo promesso di scriverti alcune storie sugli animali che ho conosciuto io da bambino, ma poi non ho potuto. Adesso proverò a raccontartene qualcuna:
-1° Per esempio, la storia della volpe e del puledrino. Pare che la volpe sappia quando deve nascere un puledrino, e sta all’agguato. E la cavallina sa che la volpe è in agguato. Perciò, appena il puledrino nasce, la madre si mette a correre in circolo intorno al piccolo che non può muoversi e scappare se qualche animale selvatico lo assale. Eppure si vedono qualche volta, per le strade della Sardegna, dei cavalli senza coda e senza orecchie. Perché? Perché appena nati, la volpe, in un modo o nell’altro, è riuscita  ad avvicinarsi e ha mangiato loro la coda e le orecchie ancora molli. Quando io ero bambino uno di questi cavalli serviva a un vecchio venditore di olio, di candele, e di petrolio, che andava da villaggio in villaggio a vendere la sua merce (non c’era allora cooperative né altri modi di distribuire la merce), ma di domenica, perché i monelli non lo prendessero in giro, il venditore metteva al suo cavallo coda finta e orecchie finte.
-2° Ora ti racconterò come ho visto la volpe la prima volta. Coi miei fratellini andai un giorno in un campo di una zia dove erano due grandissime querce e qualche albero da frutta; dovevamo fare la raccolta delle ghiande per dare da mangiare a un maialino. Il campo non era lontano dal paese, ma tuttavia tutto era deserto intorno e si doveva scendere in una valle. Appena entrati nel campo, ecco che sotto un albero era tranquillamente seduta una grossa volpe, con una bella coda eretta come una bandiera. Non si spaventò per nulla; ci mostrò i denti, ma sembrava che ridesse, non che minacciasse. Noi bambini eravamo in collera che la volpe non avesse paura di noi; proprio non aveva paura. Le tirammo dei sassi, ma essa si scostava e poi ricominciava a guardarci beffarda e sorniona. Ci mettevamo dei bastoni alla spalla e facevamo tutti insieme: bum! Come fosse una fucilata, ma la volpe ci mostrava i denti senza scomodarsi troppo. D’un tratto sentì una fucilata sul serio, sparata da qualcuno nei dintorni. Solo allora la volpe dette un balzo e scappò rapidamente. Mi pare di vederla ancora, tutta gialla, correre come un lampo su un muretto, sempre con la coda eretta e sparire in un macchine.
Caro Delio, raccontami ora dei tuoi viaggi e delle novità che hai visto. Ti bacio insieme con Giuliano e a mamma Julka.
                                                                                                                                                             Antonio

 RODARI – (la storia del fucile vero che fa “Pum!” per finta)
Il cacciatore sfortunato
- Prendi il fucile, Giuseppe, prendi il fucile e vai a caccia,- disse una mattina al suo figliolo quella donna.- Domani tua sorella si sposa e vuol mangiare polenta e lepre.
Giuseppe prese il fucile e andò a caccia. Vide subito una lepre che balzava da una siepe e correva in un campo. Puntò il fucile, prese la mira e premette il grilletto. Ma il fucile disse: Pum!, proprio con voce umana, e invece di sparar fuori la pallottola la fece cadere per terra. Giuseppe la raccattò e la guardava meravigliato. Poi osservò attentamente il fucile, e pareva proprio lo stesso di sempre, ma intanto invece di sparare aveva detto: Pum!, con una nocetta allegra e fresca. Giuseppe scrutò anche dentro la canna, ma com’era possibile, andiamo, che ci fosse nascosto qualcuno? Difatti dentro la canna non c’era niente e nessuno.
 -  E la mamma che vuole la lepre. E mia sorella  che vuol mangiarla con la polenta…
In quel momento la lepre di prima ripassò davanti a Giuseppe, ma stavolta aveva un velo bianco in testa, e dei fiori d’arancio sul velo, e teneva gli occhi bassi, e camminava a passettini passettini.
-Toh,- disse Giuseppe,- anche la lepre va a sposarsi. Pazienza, tirerò a un fagiano.
Un po’ più in là nel bosco, difatti, vide un fagiano che passeggiava sul sentiero, per nulla spaventato, come il primo giorno della caccia, quando i fagiani non sanno ancora che cosa sia un fucile.
Giuseppe prese la mira, tirò il grilletto, e il fucile fece: Pam!, disse: Pam! Pam!, due volte, come avrebbe fatto un bambino col suo fucile di legno. La cartuccia cadde in terra e spaventò certe formiche rosse che corsero a rifugiarsi sotto un pino.
- Ma benone,- disse Giuseppe che cominciava ad arrabbiarsi,- la mamma sarà contenta davvero se torno col carniere vuoto. Il fagiano, che a sentire quel pam, pam, si era tuffato nel folto, ricomparve sul sentiero, e stavolta lo seguivano i suoi piccoli, in fila, con una gran voglia di ridere addosso, e dietro a tutti camminava la madre, fiera e contenta come le avessero dato il primo  premio.
- Ah, tu sei contenta, tu, - brontolò Giuseppe. -Tu ti sei già sposata da un pezzo. E adesso a che cosa tiro?
Ricaricò il fucile con gran cura e si guardò intorno. C’era soltanto un merlo su un ramo, e fischiava come per dire: Sparami, sparami.
E Giuseppe sparò. Ma il fucile disse: Bang!, come i bambini quando leggono i fumetti. E aggiunse un rumorino che pareva una risatina. Il merlo fischiò più allegramente di prima, come per dire: Hai sparato, hai sentito, hai la barba lunga un dito.
- Me l’aspettavo. – disse Giuseppe.- Ma si vede che oggi c’è lo sciopero dei fucili.
- Hai fatto una buona caccia, Giuseppe?- gli domandò la mamma al ritorno. - Sì, mamma. Ho preso tre arrabbiature belle grosse. Chissà come saranno buone, con la polenta





Domande:

-          Se ieri Gramsci ha usato le lettere per comunicare e poi Rodari ha pensato al telefono come canale diretto con i giovani, oggi quale potrebbe essere un nuovo modo per essere ascoltati dai giovani che possa essere apprezzato da loro, cioè divertente e comprensibile?


-          Gramsci era comunista: oggi possiamo ancora apprezzare le sue idee anche se il comunismo si dice “non esiste più”?


-          E se era comunista era anche favorevole alla violenza per la conquista del potere?



-          Come mai non si è laureato all’ultimo momento rinunciando a fare il professore universitario?


-          Le storie che raccontava ai figli attraverso le lettere avevano lo scopo di insegnare qualcosa a solo di esprimere il suo affetto con vecchi ricordi di quando era piccolo?


-          Che importanza aveva per Gramsci essere sardo, visto che ha vissuto praticamente sempre lontano dalla Sardegna?


-          Perché Gramsci insiste tanto a dire che lui ha voluto essere prigioniero e che perciò nessuno lo deve compiangere?


-          Perché è stato arrestato e condannato a venti anni? Le sue storie, le sue favole hanno qualcosa a che fare con la sua condizione di prigioniero?


-          Perché Rodari imita le lettere di Gramsci? Vuole copiarle perché sono spunti divertenti per i ragazzi , per il gusto di riscriverle e trasformarle per renderle più moderne o per qualche altro motivo?


-          Perché Rodari spesso capovolge le storie raccontandole “al contrario” (per es.fucile vero- fucile finto)?


-          Nella favola di Giacomo di cristallo cosa ha voluto dire Rodari ai bambini che la leggono?Si possono spiegare i veri fatti storici ai ragazzi anche raccontando delle favole di fantasia?